Il ginepraio irakeno

“Se Marx avesse voluto cercare un esempio per dimostrare che i tempi sono maturi per superare il capitalismo, sistema economico che produce costantemente guerre e disastri, non avrebbe potuto trovare di meglio che il Medio Oriente oggi”.
Pubblichiamo questa interessantissima analisi “controcorrente” ripresa dal sito www.panerose.orgGli Usa stanno bombardando in Iraq il “diavolo” di turno, l’ISIS, per difendere i cristiani cacciati dalle loro case e gli Yazidi che muoiono sulle montagne. Nessuno si era mosso per i 500 mila iracheni, in maggioranza curdi e turkmeni che in giugno erano fuggiti da Mosul, conquistata sempre dall’ISIS.
Un anno fa parecchi repubblicani Usa intimavano “Obama armi gli islamici (di Siria) contro il diavolo Assad”, precisando “qualsiasi tipo di movimento islamico”, e Hollande e Cameron facevano eco. Oggi Londra e Parigi fanno eco al guru conservatore Krauthammer che tuona “Obama per amor di Dio armi i Curdi” (National Review 8 agosto), e infatti gli Usa stanno armando i Curdi, con l’approvazione di Hollande, di Cameron, della Mogherini. La Francia secondo un copione di collaborazione con gli Usa ormai collaudato armerà anch’essa i Curdi, mentre per la Germania il vicecancelliere Gabriel ha affermato che potrebbe essere il primo caso in cui anche il suo paese invierà armi.
Le milizie dell’ISIS sono ormai a una mezz’ora di macchina dai pozzi di Erbil, pozzi in cui hanno investito Afren, Genel Energy, Shell, BP, Chevron, Exxon Mobil. Le compagnie straniere hanno parzialmente evacuato il loro personale e fanno pressione sui governi perché i loro investimenti siano messi in sicurezza (Financial Times 9 agosto). Erbil va difesa, non solo perché è la porta dei pozzi petroliferi, ma anche perché è la base di tutte le organizzazioni internazionali, dalle ONG alle delegazioni diplomatiche o commerciali, alle filiali delle multinazionali petrolifere. Quindi non è solo la capitale dei curdi iracheni, ma anche l’avamposto dell’imperialismo internazionale, ora travolto dalla fiumana di profughi cristiani.
Oggi l’ISIS è demonizzata a piene mani, se fosse vero anche solo un decimo di quello che gli si attribuisce, sarebbe già un racconti dell’orrore: il Jerusalem Post (1 agosto) ci informa anche che l’ISIS possiede e usa armi chimiche (saranno come le “armi di distruzione di massa” di Saddam?).
L’avanzata dell’ISIS non è un fulmine a ciel sereno. Il 10 giugno ha marciato su Mossul, seconda città dell’Iraq, e disarmato l’esercito iracheno. L’11 giugno ha attaccato Baiji, circondando la più importante raffineria irachena, e conquistato Tikrit, patria dell’ex presidente Saddam Hussein. A sud controlla parzialmente Ramadi e Falluja. A giugno 500 mila civili iracheni (non cristiani) sono stati costretti ad abbandonare le loro case, 1700 massacrati. Ma il conflitto a Gaza che occupava le prime pagine dei giornali ha “oscurato” gli avvenimenti iracheni. Il 1 luglio i militanti ISIS conquistano Raqqa e poi si garantiscono il controllo della diga sul Tigri, 50 KM a nord di Mossul, che fornisce l’acqua per le centrali elettriche di tutta la regione e permette l’irrigazione di vaste aree. Nell’ultima settimana hanno conquistato Qaraqos, la più grande città cristiana irachena e posto la popolazione locale davanti al dilemma: convertirsi, pagare la dhimma, cioè la tassa dei miscredenti, fissata a 450 $ al mese (cifra esorbitante per loro), o essere uccisi. Ai circa 100 mila Cristiani caldei (200 mila secondo altri) non è rimasto che fuggire verso il Kurdistan o verso il confine turco. Sorte anche peggiore hanno subito gli Yazidi.
Per la prima volta dal conflitto Jugoslavo, il Vaticano ha avallato con forza l’azione americana, così come Rabban al-Qas, vescovo d’Amadiyah (Kurdistan iracheno). I cristiani sono diventati la bandiera dell’occidente.
Non sono solo gli Usa a bombardare i reparti dell’ISIS, notizie non confermate dai rispettivi governi parlano di bombardamenti da parte dell’aviazione turca, iraniana e persino siriana. Da mesi reparti della guardia rivoluzionaria iraniana sono schierati a difesa di Bagdad e Samara, in territorio iracheno. La Russia contro cui gli Usa hanno appena varato sanzioni, ha inviato in luglio 25 cacciabombardieri Sukhoi in soccorso alla aeronautica irachena (ma sono pilotati da piloti iraniani perché non vi sono piloti militari addestrati in Iraq – da Jamestown Foundation Monitor 10 luglio)
Gli Usa quindi si trovano a combattere dalla stessa parte dei “diavoli” di ieri e dell’altro ieri, cioè Iran e Siria e a fianco del riottoso alleato turco. Inoltre, paradosso nel paradosso, gli Usa si affrettano ad armare i Curdi, unico baluardo sul terreno contro l’ISIS (dopo l’ignominiosa ritirata dell’esercito iracheno), perché i peshmerga curdi sono sì armati, ma con vecchie obsolete armi russe, mentre l’ISIS sfoggia armi americane ultimo modello, fornite direttamente o indirettamente dagli Usa stessi o da loro alleati.
Le armi sono arrivate direttamente dagli Usa (che hanno addestrato in Giordania gruppi islamici di ogni tipo, molti dei quali si sono uniti all’ISIS), o sono state conquistate sottraendole all’esercito iracheno in fuga (armato e addestrato dagli Usa al costo di 14 miliardi di $ nell’ultimo decennio), o passate sottobanco dai migliori alleati Usa: Qatar, Turchia, Arabia saudita, o dai due alleati europei attualmente più fidati: Francia e Gran Bretagna.
Tutti oggi cercano di scaricare l’onere di aver “creato il mostro” su altri.
Il New York Times (24 giugno14) lancia una precisa accusa alla Turchia per gli avvenimenti iracheni “Dopo aver spianato la strada ai ribelli, la Turchia paga un pesante prezzo per il caos che ha contribuito a creare.”. E spiega che quello che sta avvenendo è il risultato delle manovre turche per fomentare i ribelli anti Assad in Siria, che adesso hanno sferrato un attacco all’Iraq. Ribatte inferocito l’ Hürriyet Daily News del 7 agosto “Niente affatto!”, l’ISIS è un “sottoprodotto dell’invasione Usa in Iraq” e “della politica estera Usa in Siria”. La polemica infuria anche in Turchia dove, pur senza speranza, alle elezioni ha corso un candidato, Demirtas, che si presenta come portavoce dei curdi. Viene sottolineata la censura operata da Turkish Telecom che controlla il 92% del traffico internet sull’avanzata dell’ISIS accampando il pretesto di un guasto tecnico, per evitare domande imbarazzanti a Erdogan. Erdogan si è rifiutato finora di chiamare terrorista l’ISIS. Ma avere una mina vagante come l’ISIS a due passi dalla sua frontiera non concilia sicuramente il sonno del governo turco, soprattutto perché dopo che il governo turco ha facilitato il passaggio di guerriglieri e armi da Libia e Cecenia in Siria per rimpolpare la “resistenza” anti Assad, l’ISIS ha attaccato direttamente il Free Syrian Army allevato nelle retrovie turche e per maggior sfregio ha catturato 100 cittadini turchi e l’ambasciatore nel consolato turco di Mossul. Ma il rischio maggiore è il contagio di una ondata sunnita anti sciita e anti curda in Turchia, alimentata ad es. anche dal malcontento dei militari.
Negli Usa molti repubblicani accusano Obama per il ritiro dall’Iraq nel 2011, che ha creato “un vuoto di sicurezza” in cui si è inserito l’ISIS, per altri la colpa è della politica di “surge” del 2007 durante la quale in Iraq i Sunniti sono stati armati contro gli sciiti. Ma anche aver alimentato la ribellione contro Assad di Siria ha creato un vuoto di sicurezza perché l’esercito siriano ha perso il controllo del suo territorio e delle frontiere, fra cui quella con l’Iraq.
Fonti inglesi e statunitensi danno per certo il ruolo di finanziatori e di fornitori di armi all’ISIS in funzione anti-iraniana e anti-sciita di Qatar, Kuwait e Arabia Saudita, in particolare quest’ultima nel periodo in cui i servizi di Sicurezza sono stati sotto la guida del principe Bandar bin Sultan, dimessosi lo scorso aprile. Quindi l’ISIS come una pistola puntata contro l’Iran, contro il suo fantoccio Al Maliki in Iraq e il suo alleato Assad in Siria. I Sauditi hanno finanziato in Siria anche al-Nusra, il cui leader Abu Mohammed al-Joulani è stato giustiziato a Raqqa dall’ISIS e quindi è ormai in grave crisi, da cui l’ISIS spera di trarre vantaggio reclutando uomini per tappare le perdite (2 mila dei 10 mila guerriglieri stimati sono morti nei combattimenti). Il comandante in capo militare dell’ISIS è un saudita, Shaker Wahib; sono sauditi anche molti guerriglieri.
Anche in Iran infuria la polemica: c’è chi contesta la politica estera tutta centrata sulla creazione della mezzaluna sciita, ispirata da Khameini; si chiede di lasciare il mondo arabo ai suoi pasticci e rivolgere l’attenzione all’area che più conta per gli interessi nazionali dell’Iran, cioè il Golfo Persico, essere quindi “meno sciiti e più persiani”.
Secondo fuorusciti dell’ISIS il piano dell’organizzazione è ritirarsi dal fronte siriano per concentrarsi sulle aree petrolifere, diventare uno dei tanti gruppi armati che monopolizza un importante risorsa e la vende la migliore offerente. Per questo cellule più o meno dormienti dell’ISIS sarebbero già presenti sul suolo saudita. (al Monitor 8 agosto).
L’aver favorito col proprio intervento militare lo sfascio di tre stati arabi e mezzo (Libia, Iraq, Siria, e in parte destabilizzazione del Libano) pone oggi alle monarchie del Golfo e alle cancellerie occidentali problemi inediti nelle scelte di politica estera, ma soprattutto sta aumentando i costi umani a livelli intollerabili.
E tuttavia l’intervento apparentemente da tutti benedetto, in primis dal papa, degli Usa, cui ha teso la mano anche l’Iran, sta preparando ulteriori disastri.
Obama ha chiarito che l’intervento ha il solo scopo di “difendere vite americane” (cioè diplomatici del consolato di Erbil e dell’ambasciata di Bagdad) e di prestare aiuto umanitario agli Yazidi (il “popolo del pavone”) e alle altre minoranze irachene con lanci di viveri e acqua.
Non ci sarà un nuovo intervento militare Usa via terra in Iraq (un primo intervento fugace non c’è stato?), la guerra terrestre è affidata ai combattenti curdi attestati a Khazer, presso Mossul (BBC 10 agosto) e alle forze militari irachene, che per essere “motivate” devono però essere guidate da un governo di unità nazionale.
Ipotesi non prive di preoccupazioni per l’imperialismo Usa e per i potenti vicini dell’Iraq.
Sempre a giugno i peshmerga Curdi hanno occupato preventivamente Kirkuk per difenderne i pozzi di petrolio, allargando a danno del debole governo al Maliki l’area di controllo del Kurdistan Regional Government.
I Curdi grazie alla no fly zone statunitense si sono creati un nucleo di stato in Iraq e un’area protetta in Siria, che apparivano fino a qualche mese fa come un’isola felice di ordine e stabilità nel caos generale. Anche se riarmati dagli Usa non è detto che riescano a battere l’ISIS, forse possono contenerla. Ma nel caso fossero invece vittoriosi, ritrovandosi più forti e rinsaldati dal comune fronte anti-sunnita (finora le rivalità fra i tronconi curdi sono sopite ma non scomparse), cosa impedirebbe loro di riproporre il sogno del grande Kurdistan che minaccia l’unità territoriale oltre che di Irq e Siria, anche di Iran e Turchia? Armarli e fornirli di servizi di intelligence significa dare braccia alle loro aspirazioni storiche. L’ipotesi di una sollevazione curda per creare un proprio stato nazionale non è così peregrina, soprattutto se si tiene conto che Israele sta finanziando e armando i Curdi da molto prima che fossero oggetto della benevolenza euro-americana?.
Quanto alla possibilità di creare un governo iracheno di unità nazionale iracheno in grado di difendere oil proprio territorio, per ora la strada è tutta in salita. L’attuale amministrazione Usa da la colpa all’attuale presidente Maliki di aver col suo settarismo alimentato lo spirito di rivincita sunnita; altra colpa aver escluso dall’esercito e dalle Forze di sicurezza gli ex militari sunniti. Sull’ISIS convergerebbero le simpatie di alcuni generali di Saddam (tra i quali Gen. Abboud Qanbar, il Gen. Ali Ghaidan e Gen. Mahdi al-Ghazzawi) che mal sopporterebbero il governo di Al Maliki. Ma con l’ISIS avrebbe collaborato l’organizzazione semiclandestina degli ex baathisti (il Naqshbandi Order) nella presa di Tikrit e della provincia di Diyala (BBC 1 luglio 14). L’ISIS ha reclutato combattenti, assorbito gruppi e stretto alleanze alimentando il desiderio di rivincita dei sunniti frustrati.
Nel nuovo clima di rinnovata collaborazione coi curdi gli Usa hanno appoggiato la scelta del presidente del Parlamento Fuad Masum (un curdo) di affidare la formazione di un nuovo governo allo sciita Haidar al Abadi, perché attualmente intervenire in Iraq a fianco di al Maliki vuole dire automaticamente alimentare la guerra settaria. Al Abadi già speaker del Parlamento, sciita, del partito Dawa, anglofilo, a lungo esiliato a Londra durante l’era Saddam, specialista delle questioni petrolifere, filo occidentale e contro il legame privilegiato con l’Iran. Al Abadi avrebbe secondo Obama le entrature giuste per creare un governo più inclusivo al fine di mettere d’accordo curdi, sciiti e sunniti. Al Abadi ha l’appoggio di buona parte del blocco sciita e anche di al Sistani e anche l’Iran non si opporrebbe al cambio della guardia.
Ma al Maliki ha gridato al colpo di stato, schierato nei punti strategici di Bagdad le Forze speciali per sostenere il suo diritto a ricevere l’incarico di formare il nuovo governo (le elezioni sono state in aprile) e la Corte federale gli ha dato ragione.
Dietro al Maliki c’è sicuramente una consorteria di potere, che ha gestito ad esempio la assegnazione dei diritti di prospezione dei ricchi pozzi di petrolio del sud nel 2009; gente che non si lascerà tanto facilmente allontanare dal potere
In Parlamento buona parte del blocco sciita ha abbandonato Maliki; non così molti funzionari di alto livello da lui nominati, ma anche sembra le Forze speciali che costituiscono la sua guardia pretoriana (The Guardian 19 giugno) e nemmeno i reparti dell’esercito, che sono sempre più integrati e puntellati da milizie sciite. Dopo le sconfitte di giugno e la diserzione di quasi 90 mila uomini (sic) dalle truppe di terra, è stato proprio al Maliki a lanciare il reclutamento di milizie paramilitari sciite di volontari (circa 40 mila solo nelle scorse settimane), che affiancano con propri reparti, proprie divise e propri arsenali, sia l’esercito che le Forze di sicurezza. Il reclutamento è reso più facile dalla crescente disoccupazione nei quartieri poveri di Bagdad, come Sadr City, ma anche nelle campagne del sud dell’Iraq. Alcune di queste milizie, a suo tempo, avevano combattuto gli americani ed erano state definite terroriste (es. Asaib Ahl al-Haq o Lega dei Giusti ) e soprattutto si sono distinte nella “caccia al sunnita” anche di recente (vedi il massacro nelle carceri di Baqubah). L’esercito quindi è percepito non come un elemento nazionale ma come una milizia tribale, se non addirittura come una forza al servizio di al Maliki (Washington Post 20 giugno 14)
I sauditi da parte loro giocano in proprio, perseguendo la loro strategia anti-iraniana; offrono 1 miliardo di $ di aiuti all’esercito libanese perché costituisca una milizia sunnita, alternativa all’ISIS, che comunque contribuisca a ridimensionare il peso di Hezbollah approfittando del logoramento militare subito in Siria. L’Arabia, da sempre a fianco di Hariri e in lotta serrata anche col Qatar per il controllo del Libano alimenta lo scontro settario anche in quel paese.(Al Arabiya 7 agosto)
In queste condizioni tutti gli scenari sono possibili: la definitiva spaccatura dell’Iraq in tronconi, il riesplodere del sanguinoso conflitto sunniti-sciiti, lo scontro fratricida fra correnti sciite a Bagdad ecc. (FP 12 giugno 2014). Quel che è certo è che l’area di instabilità aumenterà e di pari passo il massacro di civili. Il Medio Oriente di oggi è il risultato sia dell’intervento americano in Iraq del 2003, ma anche del ridimensionamento della potenza americana che lascia sempre più spazio agli appetiti degli imperialismi europei, ciascuno dei quali (il caso più evidente è quello della Francia) adottano una politica estera bellicista come controtendenza al declino. Ma sempre più pesano le potenze regionali grandi e piccole, che giocano ognuna per conto suo per la spartizione delle aree di influenza. C’è chi può mettere in campo il surplus finanziario, come Arabia e Qatar, accumulato negli anni delle vacche grasse degli alti prezzi dell’energia, chi può far contare il peso demografico, come Turchia e Iran, ma anche la tradizione militare e la capacità di esportarla; tutti hanno i loro arsenali stipati all’inverosimile di armi di ogni tipo, a cui si aggiunge il fiume di armi fuori controllo in arrivo dalla Libia, dalla Cecenia e dall’Afghanistan.
Man mano che crolla la compagine statale in ciascuno dei paesi coinvolti a prevalere è lo scontro
lungo linee settarie, religiose o etniche, che schiacciano i lavoratori di questi paesi aggiogandoli allo scontro fra minoranze dirigenti per appropriarsi principalmente delle royalty petrolifere. Queste borghesie esprimono leadership politiche autoritarie e si appoggiano sempre più sulla forza militare anche nella repressione interna.
In tutto questo il governo americano si trova sempre più invischiato nel ruolo di gendarme internazionale, di guardiano del caos imperialistico: non si può dire che gli Usa “combattano per il petrolio”, quanto piuttosto per conservare il suo proprio peso internazionale. In Iraq in particolare, dopo essere stato emarginato dalle grandi concessioni di sfruttamento dei pozzi, l’imperialismo americano fa i conti se mai con il convitato di pietra che nessuno nomina ma che tutti hanno presente. Metà del petrolio iracheno oggi va in Cina; l’Iraq è il quinto fornitore di energia per la Cina. Le grandi compagnie cinesi (China National Petroleum, Sinopec e CNOOC) hanno investito più di tutte le altre majors straniere. Estromessa manu militari dalla Libia, messa in difficoltà da un andamento economico sempre meno brillante, la Cina potrebbe essere una ulteriore incognita a complicare la situazione.
15 agosto 2014