Frank Zappa: la sfida di una musica impossibile

Dischi. Una tessitura vertiginosa di suoni elettronici e voci tuvane, l’album esce finalmente dagli archivi zappiani con un brano in cui si ascoltano, per l’ultima volta, le corde fatte vibrare dal musicista

               immagini dal sito de La Repubblica

Chissà che fac­cia devono aver fatto, nel back­stage cali­for­niano di Pasa­dena, quando Matt Groe­ning si pre­sentò a Ralph Leighton, mana­ger del quar­tetto di vir­tuosi tra­scen­den­tali di «canto armo­nico» tuvano, in tour negli Stati Uniti, dicen­do­gli che Frank voleva incon­trarli, ed era lì per fis­sare un appun­ta­mento. Frank? Sì, Frank Zappa. Già, per­ché Matt Groe­ning si è abi­tuati a vederlo asso­ciato alle fac­cette gialle dei Simp­son, a inven­tare pic­cole e deli­ziose cat­ti­ve­rie, non a fare da inter­me­dia­rio per un cele­ber­rimo musi­ci­sta, malato ed impos­si­bi­li­tato ad andare di per­sona. Il papà dei Simp­son era un fana­tico della musica di Frank Zappa. Quando non dise­gnava, si dilet­tava a scri­vere di rock, ma di gente del rock per dirla con De André, «in dire­zione osti­nata e con­tra­ria». Come i Resi­dents. Come Frank Zappa. Si fre­quen­ta­rono, si acca­pi­glia­rono, alla fine diven­nero amici per la pelle, e Groe­ning dise­gnò anche per il baf­futo maestro.

Ma quel giorno, il 2 gennaio1993, era in mis­sione spe­ciale, e riu­scì nell’intento. E qui sta le genesi dell’ultimo, affa­sci­nante e miste­rioso disco di Frank Zappa,Dance Me This, appena uscito. Numero di cata­logo 100, tondo tondo. La sera del 3 gen­naio , i tre can­tori tuvani suo­na­rono alla porta della UMRK (la «cucina per le ricer­che sull’utilità delle tar­tine»: nome in codice assai zap­piano dello stu­dio di regi­stra­zione annesso a casa Zappa). E si acco­mo­da­rono. Le cro­na­che a que­sto punto ripor­tano che avvenne una ses­sion impos­si­bile ma vera per­ché Frank Zappa, pie­gato in due dal tumore che lo stava con­su­mando, aveva anche con­vo­cato i Chief­tains, leg­genda della musica irlan­dese gae­lica, l’amico Johnny Gui­tar Watson, un blue­sman a cui Frank doveva buona parte del suo stile chi­tar­ri­stico ango­lare e impen­di­bile, Laksh­mi­na­ra­yana Shan­kar, vio­li­ni­sta vir­tuoso indiano, Terry Boz­zio, bat­te­ri­sta stel­lare.
I Chief­tains die­dero voce a flauti e vio­lini, pic­chia­rono sul bodh­ran, Johhny Gui­tar se ne andava in giro can­tic­chiando «stiamo ripor­tando a casa le greggi», tanto per richia­mare il coun­try alieno dei tuvani, Shan­kar suo­nava trilli impos­si­bili, e Frank Zappa piaz­zava qual­che accordo sor­ri­dendo. Zappa regi­strò tutto, aveva un vero culto per le tec­ni­che vocali «impos­si­bili»: tant’è che nelle sua opera si tro­vano anche cor­posi apprez­za­menti per il canto «a tenore» sardo, che ben cono­sceva. A Tuva il canto armo­nico (o difo­nico) è un tesoro cul­tu­rale che si stu­dia al con­ser­va­to­rio: sono un insieme di stili assai diversi tra loro, e piut­to­sto scon­vol­genti. Quasi un modo per andare oltre l’umano: e Frank Zappa, nell’ultima fase della vita, era fer­ma­mente inten­zio­nato a sfrut­tare tutte le pos­si­bi­lità offerte dalla tec­nica per riu­scire a por­tare la sua musica oltre i mar­gini d’errori degli umani.

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Dance Me This era uno dei suoi tesori nasco­sti, annun­ciati e mai ascol­tati, in cui, assieme al suo col­la­bo­ra­tore ed esperto di com­pu­ter Todd Yvega, Zappa cercò di andare con­tro la logica «lineare» dei tempi musi­cal affron­tati dalle mac­chine: «Al momento sto lavo­rando a un album di syn­cla­vier che si inti­to­leràDance Me This, ed è stato con­ce­pito per essere usato da gruppi di danza con­tem­po­ra­nea. Pro­ba­bil­mente uscirà il pros­simo anno», dichiarò all’ inter­vi­sta­tore di Gui­ta­rist Maga­zine nel giu­gno del ’93. Invece Dance Me This, con la sua tes­si­tura ver­ti­gi­nosa di suoni elet­tro­nici e «cam­pio­na­ture» di voci tuvane restò a ripo­sare negli archivi zappiani.

Adesso lo abbiamo e, all’annunciato matri­mo­nio impos­si­bile e assai zap­piano tra suoni gene­rati dalle mac­chine e voci umane c’è da aggiun­gere un altro tratto che rende il disco unico e strug­gente: Dwee­zil, figlio chi­tar­ri­sta di Frank, riu­scì a con­vin­cere il padre quasi pro­strato dal dolore a ripren­dere in mano la sua chi­tarra. Gliela accordò, gliela mise tra le mani, e sul brano che inti­tola il tutto potete ascol­tare l’ultima volta che dalle corde si spri­gio­nano volute di note zap­piane. Per il resto Dance Me This sem­bra quasi una medi­ta­zione ultra­ter­rena e com­po­sta sulla musica e sulle pos­si­bi­lità che hanno i tim­bri, i colori, le forme non con­ven­zio­nali di stu­pire le orec­chie. Ha la sor­pren­dente bel­lezza di certa severa musica con­tem­po­ra­nea, eppure all’improvviso strappa una risata, quando si fa caso a quali impos­si­bili reperti sonori cam­pio­nati (sciac­quii, cam­pa­nelli, sirene da rimor­chia­tori: ammesso che lo siano) l’irriverente mae­stro abbia nasco­sto fra i suoni.

Resta da dire della stu­penda coper­tina, scelta da Gail Zappa, la moglie: è un dise­gno di ele­fanti di Dan Eldon, gio­va­nis­simo gior­na­li­sta ed ope­ra­tore lapi­dato a morte in Soma­lia, ritro­vato nei suoi tac­cuini. «Sem­bra che bal­lino in fac­cia a chi li guarda, sfi­dando la loro stessa estin­zione», ha dichia­rato Gail. D’altra parte Frank Zappa ovun­que citava una frase del suo amato mae­stro Edgar Varèse: «Il com­po­si­tore con­tem­po­ra­neo rifiuta di morire».

fonte: il Manifesto

http://ilmanifesto.info/la-sfida-di-una-musica-impossibile/