Europa: per comprenderla occorre guardarla da Sarajevo

Su consiglio dell’amico Vittorio Agnoletto pubblichiamo questo articolo sull’ Unione Europea scritto nel 2014 per il Manifesto da Emilio Molinari (ecologista già storico dirigente di Democrazia Proletaria) ancora estremamente attuale.
Se qualcuno, in vista delle elezioni europee, volesse capire qualcosa di più sul lato oscuro dell’Unione Europea, sui suoi fallimenti, sull’umiliazione inflitta alla Grecia….il fiscal compact e il vincolo del 3%, di sicuro dovrebbe piantarla di “guardare” a Berlino o a Londra. Dovrebbe prendersi una settimana di ferie e correre in Bosnia: a Zenica, Mostar, Tuzla, e sopratutto a Sarajevo. Li, puoi guardare l’Europa con negli occhi la pulizia etnica e con il terribile termine: balcanizzazione.
Andare a Sarajevo per viaggiare nella storia.
Partire da dove 100 anni fa il colpo di pistola di Gravilo Princip dava il via alle due guerre mondiali (la seconda è il continuo della prima), partorite dall’Europa “felice e spensierata” della Belle Epoche, del “lassez fair liberista”…, dei nazionalismi e sopratutto l’Europa del fallimento delle socialdemocrazie che in nome della patria e del lavoro bellico, rinunciano alla missione universale del socialismo per votare i crediti di guerra. Partire dall’inizio del “secolo breve” dai suoi orrori, ma anche delle resistenze, del welfar e del “mai più guerre”. Il secolo delle grandi mattanze, ma anche del ripensamento che accantona il liberismo dalle Costituzioni e giura di fare dell’Europa un continente unito, in pace e senza razzismi.
A Sarajevo inizia il ‘900 e a Sarajevo finisce il 900, tra le macerie del sogno di poter vivere assieme tra diverse culture. Sarebbe un viaggio negli omissis “democratici e di sinistra” che non sono solo le foibe, ma secoli di storia e di ritorni del liberismo che alla fine genera sempre guerre e fascismi. Un viaggio nella nostra cattiva coscienza sempre civilissima, sempre mitteleuropea e sempre affascinata dalla superiorità Germanica e nelle italiche e provinciali convinzioni che civiltà e democrazia stanno sempre al Nord, i fannulloni stanno sempre al Sud, e i Balcani….sono sempre un buco nero….una barbarie da ignorare, anche se vicini a noi più di Parigi.
I Balcani non stanno negli itinerari del popolo democratico e di sinistra, non stanno nella nostra conoscenza, nei nostri interessi. Sono cancellati come luoghi di vita vissuta da una umanità. Si va a fare il bagno in Croazia o a caccia in Bosnia, ma non “vediamo”…Noi e i nostri ragazzi per “vedere” andiamo a Londra, Berlino, Parigi, Barcellona…Andiamo a cercare conferma del nostro essere moderni, civilissimi paladini dei diritti civili ed europei. Ma anche per nasconderci il fallimento, il cannibalismo dei forti che regola questa Europa, l’autodistruzione delle comunità e dei diritti: sociali, istituzionali, culturali e umani che avanza. La Bosnia è il luogo dove se ti specchi vedi le brutture dell’anima europea nascosta. Vedi le rotture, le grandi faglie della storia del continente che si incontrano e si accavallano.
Chi cerca l’identità europea deve andare a Sarajevo tra i brandelli che ancora vivono nella realtà e nella memoria delle tante culture che l’hanno composta : la greca, la romana, la slava, l’ottomana, la mitteleuropea, l’ebraica, l’italiana, la zingara. Nel Febbraio del 1994 iniziavo il mio viaggio dentro la Bosnia con Agostino Zanotti e poi con Michele Nardelli entrambi, con altri giovani che vorrei tutti ricordare, parte di una pattuglia di europei, portatori di un altra Europa: di riconciliazione, di ambasciate della democrazia locale. Un viaggio più volte ripetuto, lungo tutte le strade di Bosnia passando in mezzo a macerie reali e metaforiche ancora fumanti, in mezzo ai volti dei criminali di guerra.
Chilometri e lunghe discussioni tra di noi, per capire il senso di una tragedia che ci colpiva occhi, mente e cuore attraverso la sistematica distruzione della “casa del vicino” e i profughi, tanti profughi. Per capire il senso delle domanda: di chi la colpa? Del crollo del comunismo? della fine del coperchio titoista che per decenni ha nascosto antichi odi? Della mancata rielaborazione dei conflitti del passato? Della criminalità organizzata e la corruzione politica nate nel ventre degli apparati del comunismo? Dagli odi delle campagne verso le città? Dalla svendita culturale degli intellettuali ai nuovi poteri etnico religiosi e mafiosi?.
Cercavamo le colpe nel passato della ex Jugoslavia, nel fallimento del mondo al di la della “cortina”. Tutte cose vere, pertinenti, che non andavano nascoste e giustificate con il pensiero del complotto occidentale. Ma che non coglievano il peso avuto dalla volontà liberista europea su quegli avvenimenti e come questi fossero in forme diverse, l’anticipazione di disastri nell’UE, della Grecia, del nostro paese ecc.. Non coglievano il perché, mentre infuriava la guerra, il marco tedesco fosse (come l’euro) in quelle contrade, l’unico elemento unificante. Avremmo dato un senso diverso al diniego dell’Europa al drammatico appello dell’ultimo presidente della Jugoslavia Ante Marcovic ad essere considerati una unica entità. Alla responsabilità della Germania, del Vaticano, dei partiti europei, dei partiti verdi e persino di alcune figure carismatiche del pacifismo italiano, che in nome dell’autodeterminazione dei popoli, soffiarono sul fuoco della separazione della Slovenia e della Croazia dalla Serbia e poi della Bosnia dove la separazione era impossibile.
Avremmo capito che in quel momento l’Europa applicava la “teoria dello shock” di Milton Freedman, attraverso la quale si impongono ai cittadini le “riforme di struttura” che altrimenti troverebbero resistenze. Che lo “spezzatino delle repubbliche” era veicolo per vincoli di bilancio, privatizzazioni dell’apparato industriale, liquidazione di tutto ciò che è pubblico, svendita del patrimonio naturale.
E che tutto ciò anticipava l’odierna attualità europea. Lo potevamo vedere già nei nostri viaggi a macerie ancora calde, nei grandi camion pieni dei tronchi delle foreste disboscate, nei trafficanti di rifiuti tossico/nocivi alla ricerca di discariche, nelle fabbriche smembrate e comprate al prezzo di rottame dalle multinazionali. Oggi lo puoi vedere nell’assalto, con le dighe, all’acqua dei meravigliosi fiumi di Bosnia da parte delle imprese tedesche ed italiane, nelle miniere e nelle acciaierie privatizzate, negli operai licenziati in massa, nella disoccupazione, nel territorio venduto ecc…
Un water grabbing e un land grabbing silenzioso alle porte di casa nostra, che oggi si estende alla Grecia, all’Italia e al suo patrimonio artistico e naturale, che diventa politica nelle direttive e nel Bluprint, il piano europeo delle acque che annuncia la borsa dell’acqua e la monetizzazione di tutte le fonti. 22 anni fa, in Bosnia, si misurava la volontà europea di tenere assieme tutte le culture che l’hanno partorita; la scommessa quindi di poterci unire noi, i fondatori dell’Unione e trasformarci in effettiva Comunità di popoli, non più in competizione, non più portatori di guerre, non vassalli del più forte economicamente o dei poteri transnazionali. La scommessa fu persa e vinse l’avidità, mascherata di progresso tecnologico. Ecco perché andare Sarajevo è scoprire la metafora dell’odierno fallimento dell’UE, dei nostri partiti, della nostra arrogante modernità, della cecità e della logica di potenza della Germania che ancora si fa motrice di altre macerie.
Tornare a Sarajevo sul ponte della Miljacka o a Mostar sul ponte della Neretva per ripensare all’Europa non come Unione ma come Comunità di beni comuni. Per ricordare l’origine: la CECA…..Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, beni comuni fondamentali nella cultura del dopo guerra, per la ripresa e per l’idea che il 900 aveva dello sviluppo e del lavoro. Per ripensare oggi fuori da quei paradigmi sviluppisti ad una Comunità Europea dell’Acqua e del Territorio. Una Comunità di popoli che fa i conti con il limite delle risorse e con la crescita illimitata, con la ricchezza e il benessere fatto sulla rapina delle risorse ai popoli del Sud del mondo e che pensa ad una gestione in comune dei beni essenziali del vivere e lavorare meno, assieme e tutti: nella sobrietà e nella dignità.