di Loris Caruso il manifesto, 18 luglio 2017 (titolo originale: “uniti nel programma, il resto è la replica di un brutto film”).
Si può amare un film così tanto da non stancarsi mai di rivederlo. Ha meno senso riguardarlo a scadenza periodica dopo aver dichiarato di non sopportarlo. Ma la trama è nota, i personaggi familiari, alcuni passaggi accattivanti, e ancora una volta ci si siede a guardarlo: ciò che è noto rassicura.
La coazione a ripetere funziona è così: si rifà all’infinito la cosa che si giura di non voler fare. Si sa che non funziona, ma non si riesce a evitarlo.
Ogni volta che si avvicinano le elezioni succede la stessa cosa. Si apre un dibattito, di settimane o mesi, fatto di interviste, articoli, assemblee, incontri privati, messaggi incrociati, incentrato sulle forme in cui costruire una lista elettorale e sui rapporti tra partiti della sinistra. Si invoca l’unità. Si dice che si deve parlare di contenuti e non di tattica, ma non si avvia un confronto sui contenuti. Si accusa di minoritarismo chi non crede che parlare alle maggioranze sociali significhi unire diversi partiti in una lista elettorale.
Questa volta la situazione è anche più complessa che in passato.
I partiti e gruppi politici a cui viene chiesto di costruire una lista unitaria sono diventati sei: Campo progressista, Mdp, Possibile, Sinistra Italiana, Rifondazione, L’Altra Europa, per citare i principali. Tra questi c’è una parte rilevante del ceto politico responsabile delle principali scelte di governo degli ultimi vent’anni. Rispetto al passato, l’asse si è spostato in senso moderato.
I partiti alla sinistra del Pd si sono presentati insieme alle elezioni molte volte, dal 2008. Non è mai andata bene, a parte le europee del 2014. Perché, come se il passato non esistesse, si centra ancora una volta il dibattito sulla necessità di “unire la sinistra”?
Rimescolare l’esistente non fa guadagnare voti, non costruisce nuovi inizi, non apre orizzonti, non diffonde entusiasmi, non spiazza gli avversari, soprattutto quando tra i protagonisti ci sono volti che l’elettorato conosce da 20 anni. Siamo il paese in cui un partito che si è posto ‘da solo contro tutti’ e che non fa alleanze è arrivato al 25%. A sinistra si fanno ancora le somme sui risultati dei sondaggi.
Le nuove esperienze di sinistra cresciute in America Latina, Europa e Usa (da Chavez a Corbyn), sono nate come forze esterne, almeno nei loro leader, al circuito del ceto politico esistente.
Si pongono, soprattutto nella fase iniziale, come movimento di opposizione a tutto il sistema politico. Possono rivendicare di non aver mai gestito il potere, di non aver contribuito alle scelte di governo degli anni precedenti e di avere un nitido passato di opposizione a quelle scelte. Individuano una o più chiavi programmatiche e identitarie su cui impostare un discorso politico in grado di raccogliere e dare forma a domande fondamentali presenti nella società. Sono connesse a processi sociali reali. Si organizzano e comunicano in forme originali. Rappresentano visibilmente una rottura radicale rispetto alle politiche precedenti, a partire dalle biografie dei promotori.
Sono tutte caratteristiche che si sono dimostrate non sufficienti, ma necessarie, per costruire nuove forze dotate di consenso. E sono caratteristiche molto poco diffuse tra le formazioni alla sinistra del Pd.
L’iniziativa che più si avvicina a questi modelli è quella lanciata da Falcone e Montanari. Per sviluppare le sue potenzialità dovrà però smarcarsi con più forza possibile dal dibattito sull’”unità della sinistra” intesa come unità tra i partiti della sinistra, e soprattutto dagli attendismi e i politicismi che ne derivano.
Una lista unitaria da Pisapia a Rifondazione non è realistica.
Prima di tutto perché non la vogliono gli interessati. Pisapia non vuole fare una lista con la sinistra radicale, ha già lanciato segnali molto chiari in questa direzione. Di suo, escluderebbe anche Sinistra Italiana. Per D’Alema il nucleo della lista (e futuro soggetto politico) è Campo Progressista-Mdp, chi vuole ci stia a queste condizioni.
Buona parte di chi ha partecipato all’assemblea del Brancaccio, dall’altra parte, non vuole stare nella stessa lista di chi ha fatto la guerra nei Balcani e di chi rivendica, come Bersani, la globalizzazione dal volto umano, l’economia di mercato come valore e il pareggio di bilancio come principio.
Queste distanze, e il rischio di avvitarsi ancora per settimane su un discussione che riguarda più i mezzi che i fini e che non sembra avere una chiara via d’uscita, sono emerse anche nel Forum organizzato dal Manifesto.
Prendere atto di questo significa guadagnare tempo perché, chi si avvicina di più ai modelli che si sono rivelati efficaci in Europa e nel mondo, riesca a costruire un progetto all’altezza delle sue intenzioni.