di Luigi Vinci
Il risultato, per un suo aspetto sorprendente ma non troppo, delle appena passate elezioni regionali in Emilia Romagna e Calabria consente già a botta calda alcune riflessioni. L’aspetto sorprendente è il tracollo della partecipazione elettorale, essendo esso avvenuto in termini giganteschi in Emilia Romagna e solo un po’ meno giganteschi in Calabria. Si può ben dire che comunque il PD di Renzi ha vinto: ma il fatto che si tratti di una vittoria basata sul tracollo della partecipazione significa che è venuto a termine il periodo in cui attorno al personaggio era coagulata l’aspettativa e la mobilitazione elettorale (non dimentichiamo le primarie che lo elessero segretario del PD) di decine di milioni di persone. Di questa venuta a termine erano già emersi alcuni segnali, e ora le elezioni regionali non solo ce li confermano ma dichiarano la radicalità del proprio contenuto. Detto in altre parole, se prima la vittoria di Renzi era avvenuta attraverso una mobilitazione di popolo (di quasi metà del popolo italiano), oggi la sua vittoria avviene attraverso la smobilitazione e la passivizzazione elettorale della larga maggioranza di questo popolo. Non ci si racconti che queste elezioni in Emilia Romagna e in Calabria sono state pesantemente condizionate nel senso della non partecipazione popolare dagli scandali che hanno mandato a casa prima della scadenza fisiologica le giunte di queste regioni: in Calabria purtroppo la popolazione ci è abituata, in Emilia Romagna, guardando all’ex presidente di giunta Errani, le cui dimissioni hanno fatto scattare le elezioni, si tratta di piccolezze che probabilmente non porteranno a una condanna. Mai come oggi, inoltre, le elezioni locali risentono dell’andamento politico nazionale: anche per il solo fatto che oggi regioni ed enti locali sono impediti, quanto a possibilità di iniziativa e di spesa sociale, alla mannaia governativa chiamata spending review. Il voto locale insomma è diventato, piccoli centri forse a parte, un giudizio di credibilità o incredibilità della politica di governo nazionale.
Il voto degli elettori emiliani e calabresi non è tuttavia andato alle forze di opposizione al governo Renzi, Lega Nord a parte. Sale in percentuale di molto il voto a questo partito, è vero: ma ciò avviene come effetto del tracollo della partecipazione elettorale, non per via, salvo pochissimo, di un’espansione reale. In altre parole, la Lega è riuscita a tenersi più o meno i suoi voti: indubbiamente forte della relativa credibilità della svolta di linea e di posizionamento effettuata dal segretario Salvini, cioè, concretamente, perché la Lega ha costruito una sua nuova posizione prendendo criticamente di petto le politiche di “austerità” sociale ed economicamente recessive imposte dall’Unione Europea all’Italia e che il governo Renzi pratica, al di là delle chiacchiere e dell’attesa mistica di nuove politiche economiche europee, che stando a quanto già se ne sa si riveleranno un bluff. Inoltre Salvini ha avuto la capacità, imitando quei fascisti francesi a cui è sempre più vicino, di associare al bersaglio dell’odio popolare Unione Europea più euro la povera gente immigrata, bersaglio essa oggi della disperazione della quota più sprovveduta della nostra popolazione. Ma Lega a parte, appunto l’intero quadro delle forze politiche di governo e delle destre di opposizione subisce il tracollo numerico dei propri voti. Le due liste a sinistra, infine, aumentano le percentuali di voto rispetto al passato, sommandone il risultato, ma non aumentano anzi riducono i voti rispetto a esso. Certamente, a parer mio, unite queste liste avrebbero ottenuto di più, forse molto di più: ma l’unità non è stato possibile farla, data la divaricazione sulla validità o meno di un discorso politico e di un’iniziativa che incidano sulle ormai vistose contraddizioni del PD. Rimango perciò del parere che oggi l’obiettivo dell’unità a sinistra sconta fondamentalmente il settarismo e l’estremismo di quanti non solo concepiscono il PD come un omogeneo nemico, ma persino rifiutano ogni accordo con quelle forze di sinistra che pongono la questione in altri termini.
Tra i motivi più incidenti della mancata partecipazione alle elezioni di una preponderante quota di elettori del PD ci stanno senz’altro il vuoto di realizzazioni sul versante della ripresa economica e dell’occupazione e le brutali iniziative antisociali (dall’attacco all’art. 18 a quello, tramite il taglio delle possibilità di spesa delle amministrazioni locali e regionali, ai servizi sociali e di trasporto e alla sanità), quindi ci sta il venir meno dell’efficacia della retorica asfissiante di governo di questi mesi; e a seguito di ciò ci sta l’avvio di una percezione diffusa di come Renzi in realtà sia allineato alle politiche di “austerità”. Ma soprattutto, almeno come goccia che ha fatto traboccare il vaso, tra i motivi di tale mancata partecipazione ci sta, da poche settimane a questa parte, la decisione di Renzi di aprire una guerra politica a morte nei confronti della CGIL. Anzi, più precisamente, io credo che l’apertura di questa guerra sia stato il fattore principale del tracollo dei voti raccolti in queste elezioni regionali. La cosa si spiega da sé: nella storia del nostro paese sempre partito principale della sinistra e sindacato di classe hanno costituito un tutt’uno, una sorta di partito politico-sociale allargato; e niente come l’attacco alla CGIL, per di più portato con una violenza e un’argomentazione tipiche solo e da sempre delle destre estreme, poteva colpire più distruttivamente il consenso del popolo di sinistra al PD, prima di tutto infliggendogli una profonda e non facilmente rimarginabile sofferenza.
Ciò significa, per inciso, che all’iniziativa di sinistra sono ormai aperte potenzialmente larghe praterie. Le divisioni a sinistra accennate sono, come accennato, il freno a mano che impedisce che questa potenzialità si trasformi in realtà. Anche questo si trova dal lato del successo della Lega, ma non granché, in realtà, avendo essa preso voti che erano sostanzialmente già suoi quasi tutti: certo però anche a essa si apre davanti la prateria del voto popolare, quello operaio compreso. Anche questa divisione a sinistra, ancora, consente a Grillo di continuare a esistere, benché sempre più acciaccato e sempre meno credibile. Sono in grado di aggiungere solo questo: o a gennaio riusciremo a sinistra ad avviare davvero un’inversione di tendenza, cominciando a unire tra loro quelle forze, compreso qualche frammento di PD, che già oggi si mostrano disponibili, o sarà bene che ci si rassegni alla nostra scomparsa politica definitiva come condizione perché qualcosa di meglio possa prima o poi partire. Ma, si badi, questo rischia di significare che, mentre in Spagna, Grecia, Irlanda è la sinistra quella che sta assumendo la guida popolare contro “austerità” ecc., l’Italia probabilmente si troverà affiancata a Francia e Regno Unito, dove invece questo ruolo di guida l’hanno assunto forze fasciste o semifasciste.
Un ultimo ragionamento. Io non sono così sicuro del fatto che il Renzi che si dichiara pienamente soddisfatto del risultato di queste elezioni regionali menta. Io non credo, cioè, che egli si dichiari soddisfatto solo per il risultato in sede di percentuali elettorali. Io penso invece che a Renzi in ultima analisi del fatto che la gente vada o non vada a votare non gli interessa minimamente; in altre parole, che egli sia culturalmente indifferente al fatto che esista una democrazia parlamentare riconosciuta dalla popolazione come valida così come sia culturalmente indifferente al fatto in corso della crisi della democrazia parlamentare come effetto della cresi sistemica, economica e sociale, in cui l’Italia è precipitata e continua marcire. A Renzi cioè vanno bene ambedue le situazioni, purché sia in condizione di gestirle. Gli va bene gestire la democrazia parlamentare se può gestirla con il trucco di primarie che accoppano uno dei suoi ingredienti fondamentali, un sistema in competizione a un livello possibilmente decente di partiti; e gli va bene che questa competizione sia sostanzialmente ridotta a poco più che nulla, in quanto la popolazione la diserta, se può gestirla con la demagogia e le elemosine di governo. Tutto il problema per Renzi è quindi da oggi quello delle forme e dei mezzi per gestire una nuova situazione: e forme e mezzi non gli mancano, anzi forse sono diventati di più. Renzi non è il protagonista di un attacco distruttivo all’efficacia e alla credibilità di strumenti fondamentali della democrazia, come le assemblee elettive locali? Non sta tentando di distruggere il Senato come istituzione non semplicemente elettiva, ma anche di controllo di fatto sulla qualità della legiferazione, correggendone le frettolosità e contrastando la pressione di governo sul Parlamento? E’ forse democratica una RAI piegata totalmente ormai a organismo propagandistico, non del governo, ma del suo capo? Cosa volete dunque che gliene stropicci di quanta gente va a votare: meno ci va, anzi meglio potrebbe essere, poiché questo fatto, segnalando la caduta verticale di credibilità dell’impalcatura istituzionale del paese, a cui egli d’altronde ha contribuito più di chiunque, gli può consentire di realizzare con meno impicci il suo scopo; un’Italia autoritaria e antisociale al servizio della ricchezza.
L’unico ostacolo di mezzo si chiama oggi CGIL. Non è proprio un caso, dunque, che Renzi da queste elezioni regionali, mi pare proprio, stia traendo non già la lezione di abbassare il tiro, ma di alzarlo.