Egitto

LA REPRESSIONE MILITARE È DI MASSA
I giorni terribili che l’Egitto sta vivendo, con le forze di polizia che
sparano sui Fratelli Musulmani e i morti che si contano a centinaia se non
a migliaia, fanno venire alla mente alcune amare considerazioni sui
protagonisti dello scontro, che hanno contribuito a innescare questa
situazione senza poi riuscire a controllarne le conseguenze, come
l’apprendista stregone di disneyana memoria.
Tra questi, in primo piano vi è sicuramente Mohamed El Baradei, il Premio
Nobel coordinatore del Fronte di Salvezza Nazionale, la coalizione dei
diversi gruppi di orientamento laico e democratico che si opponevano al
deposto presidente Morsi. Incapaci di ottenere le sue dimissioni attraverso
la lotta politica e le manifestazioni di massa, non hanno esitato a
rivolgersi all’esercito perché intervenisse e risolvesse il problema.
Faceva un certo effetto, il giorno del colpo militare, vedere El Baradei
partecipare alla manifestazione che celebrava l’intervento. Probabilmente,
pensava di riuscire a imbrigliare la situazione, controllando il successivo
corso degli eventi. Ma si illudeva. I tentativi di mediazione avanzati dal
Grande Imam dell’Università di Al-Azhar, Ahmed al-Tayyeb si scontravano con
le opposte intransigenze dei Fratelli Musulmani e dei militari, senza
riuscire a impedire il precipitare della situazione.
Quanto alla Chiesa Copta, il suo coinvolgimento nel golpe ha portato
all’attacco di decine di chiese in tutto il paese, approfondendo il solco
interconfessionale che già preesisteva.
Le dimissioni da Vicepresidente annunciate da El Baradei il 14 agosto non
sono perciò che il malinconico epilogo di un tentativo velleitario e
fallimentare di quell’area laica e democratica, che pur di sloggiare i
Fratelli Musulmani dal potere non ha esitato a vendere l’anima al diavolo.
Quanto all’esercito, e al suo nuovo uomo forte, Abdel Fattah el-Sisi,
Ministro della Difesa e capo delle Forze armate, ora vice-presidente del
paese, è probabile che le loro illusioni di un rapido ripristino
dell’ordine pubblico siano da ritenersi illusorie. Le forze armate hanno
ininterrottamente governato il paese a partire dalla rivoluzione dei
giovani ufficiali del ’52, e fino all’elezione di Morsi, nel giugno 2012, e
considerano naturale essere al potere. Solo l’alleanza tra il movimento di
opposizione democratica e i Fratelli musulmani ha potuto indurli a mollare
la presa.
Il compromesso raggiunto da Morsi con i nuovi “giovani ufficiali” guidati
da el-Sisi, che portò alla deposizione del Maresciallo Tantawi e al
consolidamento del potere di Morsi, nell’agosto 2012, sancì un nuovo
equilibrio: Morsi si sottraeva al controllo dei militari, a cui però veniva
garantita la conservazione di quella larga area di potere economico,
sociale e di privilegio cui erano assuefatti. L’errore di Morsi è stato
quello di considerare il compromesso raggiunto come consolidato e
definitivo, mentre per l’esercito esso era un punto d’equilibrio da
sottoporre a verifica e condizionato. La voracità di potere di Morsi e la
conseguente spaccatura tra Fratelli Musulmani e opposizione laica aprivano
un varco e determinavano un vuoto, che avrebbero rappresentato
un’irresistibile attrazione fatale per l’esercito.
Ma questo dovrà fare i conti con due gravi incognite: la capacità di
resistenza della Fratellanza, che si è già manifestata in questi giorni e
che può contare sull’eco che la repressione ha su tutti i media mondiali. I
Fratelli Musulmani hanno già dimostrato di essere in grado di reggere
lunghi anni di clandestinità, ed hanno utilizzato il pur breve periodo di
potere per consolidare i legami di massa con la popolazione. Ed ora che non
hanno più su di sé l’onere del governo, possono sfruttare a fondo la loro
condizione di vittime in nome della fede. Le forze dell’ordine egiziane non
sono attrezzate a controllare manifestazioni di massa utilizzando
metodologie adeguate, che non siano il puro e brutale ricorso alle armi. E
l’esercito è da sempre riluttante ad un intervento in prima persona.
L’altro aspetto è la crescente incontrollabilità del Sinai, ove alcune
migliaia di Jihadisti legati a Al Qaeda, appoggiati alle tribù di beduini
da sempre scontenti e insofferenti del potere centrale, conducono oramai
una vera e propria guerra di logoramento con continui sanguinosi attacchi
contro le forze del governo e contro il gasdotto che rifornisce Israele,
cercando di creare nella zona un’ennesima zona franca.
Quanto agli Stati Uniti, il meno che si possa dire è che hanno sbagliato
tutti i loro calcoli. Dopo aver cercato di fare di Morsi un partner
preferenziale, nel corso della crisi di Gaza con Israele nel novembre 2012,
essi se ne sono distanziati sempre più, cercando di favorire un compromesso
tra il presidente e l’opposizione laica.
Al momento dell’intervento dell’esercito, hanno evitato di chiamarlo un
golpe, per sfuggire alla legislazione americana che vieta di dare
finanziamenti a governi scaturiti da un colpo di stato. Nelle settimane
scorse, il Segretario di Stato John Kerry è arrivato a definire
l’iniziativa come un intervento volto a ripristinare la democrazia nel
paese. Ma dopo i massacri dei giorni scorsi, non è potuta mancare la
deplorazione di quanto accaduto, e il presidente Obama ha ordinato la
sospensione delle esercitazioni congiunte annuali programmate da lungo
tempo, pur senza arrivare a rimettere in discussione gli aiuti militari
all’Egitto, che ammontano a 1,5 miliardi di dollari all’anno. Qui, invece
di apprendisti stregoni, si potrebbe forse parlare di sepolcri imbiancati.
Janiki Cingoli (www.puntorosso.it)