Il dilemma dei lavoratori

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La crisi ha fatto emergere un paradosso del capitalismo: servono consumatori che spendano soldi, ma allo stesso tempo accettino flessibilità e insicurezza del posto di lavoro.

L’esclusione sociale riguarda tutti i poveri senza distinzioni: il loro tenore di vita è separato da quello della maggioranza della popolazione.

di Colin Crouch, Social Europe, Regno Unito
Internazionale 1094 del 20 marzo 2015

Avere consumatori fiduciosi è particolarmente difficile in un momento in cui la globalizzazione e i cambiamenti economici stanno destabilizzando la vita dei lavoratori. In questo contesto hanno ottenuto i risultati migliori i paesi che si sono affdati al senso di solidarietà per sostenere energiche politiche sociali e contrattazioni collettive con sindacati efficienti. Purtroppo le élite politiche e imprenditoriali sono impegnate a smantellare le basi di questa solidarietà ovunque (inclusi i paesi dove il meccanismo ha funzionato), sostituendola con il ricorso crescente all’indebitamento pubblico e privato. Questa è una delle principali conclusioni di uno studio sulle politiche adottate dai paesi europei, dal Giappone, dalla Russia e dagli Stati Uniti per trovare la quadratura del cerchio: individuare una soluzione che faccia coesistere lavoratori insicuri e consumatori fiduciosi. Il ruolo di consumatore e quello di lavoratore possono essere ricoperti da persone diverse.
Succede, per esempio, nei paesi che fanno grande affidamento sulle esportazioni o sulle rimesse degli emigrati. In alternativa, i consumatori e i lavoratori possono essere separati nel tempo: questo succede quando una popolazione finanzia i propri consumi a spese delle generazioni future ricorrendo a un forte indebitamento pubblico oppure svolgendo attività economiche redditizie a spese dell’ambiente. Spesso la scelta dell’indebitamento e quella dei danni all’ambiente sono insostenibili, ma sono allettanti perché non hanno bisogno dei meccanismi di solidarietà collettiva. In altri casi si preferisce separare consumo e redditi da lavoro puntando sul fatto che le persone non contano solo sul proprio stipendio per finanziare gli acquisti. Ne è un chiaro esempio il ricorso sempre più frequente al credito al consumo (il finanziamento di singole persone e famiglie che permette di rimandare o rateizzare i pagamenti). Diverso è il caso di uno stato assistenziale molto forte. Se elementi come la salute, l’istruzione e la protezione sociale sono garantiti all’esterno dell’economia di mercato, i lavoratori possono assumersi maggiori rischi con altri tipi di consumo. Il ricorso al credito al consumo (sostenibile solo nel breve periodo) ha bisogno di una quantità minima di solidarietà sociale, necessaria invece in uno stato assistenziale forte. Differenze simili si ritrovano nelle misure alla base delle politiche sociali e delle contrattazioni sindacali che cercano di coniugare sicurezza e flessibilità nella vita dei lavoratori. Esiste una grande differenza tra le politiche che prendono in considerazione la forza lavoro nazionale e quelle che costruiscono barriere tra chi può contare su buone garanzie e tutti quelli che subiscono il peso della flessibilità (immigrati, giovani, donne, persone che lavorano nell’economia sommersa e i poveri in generale). In questo contesto troviamo i temi associati più strettamente alla sicurezza dell’impiego: le politiche attive per il mercato del lavoro, le leggi per la protezione dei dipendenti, i sistemi coordinati di contrattazione collettiva. Dietro la grande diversità nelle soluzioni si possono comunque individuare degli schemi ricorrenti. Generalizzando possiamo identificare tre gruppi di paesi in base alla relativa prevalenza di quattro forme d’intervento: stato sociale, governance associativa, mercato e comunità tradizionale.

Democrazia sociale
Il primo gruppo comprende i paesi dove dominano le politiche sociali e la regolamentazione dei mercati del lavoro da parte dei sindacati e delle associazioni di datori di lavoro (governance associativa), anche se spesso si fa un uso considerevole delle risorse del mercato privato. Possiamo definire questi sistemi “socialdemocratici” e li troviamo soprattutto nell’Europa nordoccidentale (con qualche dubbio sulla Francia, dove la governance associativa è debole) e fino a un certo punto anche in Slovenia. Fatta eccezione per il Belgio e la Francia, questi paesi combinano una buona sicurezza per i lavoratori con l’innovazione economica. Presentano bassi livelli di disuguaglianza di reddito, ma una tendenza a usare gli immigrati e a volte anche le donne come gruppi parzialmente esclusi. Mentre alcuni hanno avuto in passato alti livelli di debito pubblico e pochi hanno alti livelli di credito al consumo, in generale questi paesi tendono a evitare le pratiche non sostenibili (l’indebitamento, le attività dannose per l’ambiente, l’economia sommersa). Un importante elemento alla base dei loro regimi lavorativi e politici sono sempre stati i grandi sindacati, soprattutto nei paesi nordici. Eppure, nonostante il successo ottenuto, oggi il sostegno al modello socialdemocratico si riduce sempre di più. Lo stato assistenziale è sostituito dal ricorso ai meccanismi del libero mercato, il ruolo della contrattazione collettiva viene ridimensionato e la solidarietà sociale (che sia una causa o un effetto del processo) s’indebolisce.

Neoliberismo
Altri paesi sono dominati da strumenti tipici dell’economia di mercato come le pensioni private, i crediti al consumo ma anche una politica sociale ridimensionata a favore del presunto potere disciplinante del mercato. Sono i paesi neoliberisti. Parliamo soprattutto di quelli anglosassoni, ma in un certo senso possiamo includere nel gruppo anche la Repubblica Ceca, la Slovacchia, il Giappone e la Svizzera. Anche se ridotto, si tratta di un gruppo comunque eterogeneo. Nel Regno Unito e in Svizzera l’assistenza sociale è più forte di quanto non raccontino gli stereotipi. Il Giappone, il Regno Unito e gli Stati Uniti hanno livelli di debito pubblico incompatibili con il concetto di stato neo liberista. Nei due casi dell’Europa centrale non c’è una politica sociale forte né un alto livello di credito al consumo. La Repubblica Ceca e la Slovacchia presentano storicamente un livello alto o molto alto di occupazione e innovazione economica. Fatta eccezione per la Repubblica Ceca e la Slovacchia, che sono altamente ugualitarie, i paesi neoliberisti tendono ad avere alti livelli di disuguaglianza di reddito. L’esclusione sociale riguarda i poveri in generale (senza distinzioni tra specifiche categorie sociali): il loro tenore di vita è nettamente separato da quello della maggioranza della popolazione. Alcuni dei paesi del gruppo (ma non la Svizzera, la Repubblica Ceca o la Slovacchia) hanno alti livelli d’indebitamento pubblico e privato e anche (esclusa la Svizzera) di inquinamento ambientale. Tutti, però, sono caratterizzati da una scarsa influenza dell’economia sommersa, ma hanno comunque problemi di sostenibilità. A differenza dei paesi socialdemocratici, non sono caratterizzati dalla forza dei sindacati, che varia però dall’Irlanda, dove i sindacati sono mediamente forti, agli Stati Uniti, dove invece sono molto deboli.

Comunità tradizionale
Infine ci sono i paesi in cui le principali misure per garantire la sicurezza provengono dalle famiglie e dalle comunità locali. Misure di mercato negative (per esempio l’assenza di una politica assistenziale) e in alcuni casi gli alti livelli d’indebitamento privato forniscono un certo sostegno “di mercato”, e nell’Europa sudoccidentale (con l’eccezione della Spagna) questo si accompagna a un elevato debito pubblico. Questo gruppo è il più consistente e include la maggior parte dei paesi dell’Europa centrale, orientale e meridionale. L’occupazione e l’innovazione economica sono bassi quasi ovunque. La maggior parte di questi paesi registra alti livelli di disuguaglianza di reddito e una grande varietà di forme di esclusione sociale. I livelli di inquinamento e d’indebitamento pubblico e privato variano, ma in tutti i casi si ricorre all’insostenibile economia sommersa.

Conclusione
La crisi ha segnato il grande fallimento della strategia neoliberista basata sulla deregolamentazione dei mercati finanziari, ma i suoi sostenitori hanno abilmente rigirato la frittata: parlano di crisi della spesa pubblica, ignorando il fatto che è stato proprio lo sforzo per salvare le banche a imprimere una pressione insostenibile sulle risorse pubbliche dei diversi paesi. Da allora la disuguaglianza crescente prodotta dall’economia neoliberista è diventata un motivo di preoccupazione per l’Ocse, per la Banca mondiale e per altre istituzioni internazionali. Questa preoccupazione non è dettata da motivi di giustizia sociale, ma dai suoi effetti negativi sull’economia. A partire dagli Stati Uniti e poi in tutti i paesi sviluppati, l’1 per cento della popolazione si sta accaparrando una parte sempre più consistente della ricchezza, costringendo i lavoratori a dipendere sempre di più dal credito per finanziare i loro consumi. Le società più egualitarie dell’Europa nordoccidentale hanno adottato un modello sociale che per decenni ha scongiurato questo problema. Quanto tempo passerà prima che le élite economiche e politiche capiscano che rafforzare ed esportare quel modello sarebbe più utile che distruggerlo?

Colin Crouch è professore emerito all’università di Warwick, nel Regno Unito, e membro scientifico esterno dell’Istituto Max Planck per lo studio delle società a Colonia, in Germania. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è “Quanto capitalismo può sopportare la società” (Laterza 2014). Il 28 marzo 2015 Colin Crouch sarà a Torino per la manifestazione Biennale Democrazia.

Fonte: Internazionale 20 marzo 2015

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