I, DANIEL BLAKE, UN UOMO OFF LINE

di Mauro Caron
Vi chiederete se vale la pena di andare a vedere l’ennesimo Ken Loach.
Avete visto l’ultimo Jimmy’s Hall, e ve ne siete pentiti, un altro film così poco necessario, poco sentito e in certo grado retorico non ve la sentite di sopportarlo.
In fondo sapete già cosa aspettarvi. Cinema sociale, stile realistico, periferie inglesi, gente comune, polemica contro il capitalismo e le destre, al massimo un po’ di umorismo salace per sdrammatizzare e dimostrare che la gente semplice è capace anche di ridersela anche in mezzo alle disgrazie e malgrado i malvagi sfruttatori (come il contadino di Ho visto un re di Fo-Jannacci).
E avete torto. Cioè, in parte avete ragione, però avete anche torto.
Perché è tutta quella roba lì, cinema sociale, stile realistico, periferie inglesi, gente comune, polemica contro il capitalismo e le destre, umorismo salace, ma è anche un film necessario, sentito, senza retorica. Perché racconta il nostro tempo, perché racconta quello e quelli che gli altri film non ritengono degno di essere raccontato.
Tipo un carpentiere che ha dovuto smettere di lavorare perché malato di cuore, che si trova invischiato in un mostruoso (ma credibilissimo, accidenti quanto credibilissimo) gorgo burocratico in cui una funzionaria (senza competenza medica) gli nega l’indennità di malattia in contraddizione con tutta la documentazione specialistica, altri burocrati gli impediscono di fare ricorso fino a che non sia terminato un iter senza fine (certa), e altri burocrati ancora gli negano l’indennità di disoccupazione se non dimostra di cercare un lavoro – che comunque non potrebbe accettare, per ragioni di salute e perché accettandolo perderebbe la possibilità di ottenere l’indennità per malattia che gli spetta. Un uomo che sa usare una pialla, ma si trova a disagio davanti alla tastiera di un pc, in una società dove essere moderni significa essere digitali, anche se magari ci si dimentica di essere umani; un uomo capace di aiutare gli altri ma che potrebbe perdere la fiducia in se stesso e in chiunque. O tipo una ragazza madre che si toglie il pane di bocca (letteralmente) e ruba per dar da mangiare ai figli, e per la quale l’unico mestiere disponibile sul mercato degli uomini e delle donne mercificati sembra essere la prostituzione. O tipo due bambini cresciuti nell’unica stanza di un ostello per i poveri.
Gente poco trendy, vero? E’ sì che sono bianchi, anglosassoni, protestanti, insomma sembrerebbero avere tutto in regola, però di sicuro si preferirebbe non averci niente a che fare. Eppure più o meno al loro posto potrebbe esserci chiunque, io, voi, adesso o nel futuro, in una società liquida che lascia indietro, abbandona e soffoca chiunque non riesca, per qualsiasi motivo e anche solo per un momento, a seguire la corrente. Una società che ci vuole tutti clienti, consumatori, numeri in balia di una giostra burocratica che anziché perseguire il bene delle persone sembra concepita per dominarle, neutralizzarle, ridurle al silenzio e all’impotenza quando non siano funzionali al sistema.
Fate bene se decidete di non andare a vederlo, perché è difficile rimanere ad occhi asciutti davanti a scene come quella della Banca del cibo (molto intensa l’ammirevole performance di Hayley Squires), e in diverse altre occasioni. E quelle che salgono agli occhi sono lacrime di compassione, di empatia, ma anche di rabbia e di indignazione.
Scusate se sono stato un po’ retorico, Loach ha fatto di tutto per non esserlo. Ha vinto una sacrosanta palma d’oro a Cannes, ma qualcuno, ancora una volta, l’ha definito un po’ anacronistico. Ma se essere anacronistici vuole dire avere ancora a cuore la sorte dei nostri simili, evviva l’anacronismo. E anzi, anacronistici di tutto il mondo, cercate di unirvi. E per prima cosa andate a vedere la storia di uno che cerca di tenere la testa alta nonostante tutto e di continuare a proclamare nel suo piccolo la propria umanità, la propria identità, i propri diritti, I, Daniel Blake.