di Luigi Vinci
La tragedia di una delle grandi nazioni storiche del Medio Oriente, quella curda, è a rischio di un terribile sviluppo: attaccata dai tagliagole dello Stato Islamico, è ora attaccata contemporaneamente da costoro, dalle forze armate e di polizia della Turchia sul territorio turco e dall’aviazione turca sul territorio iracheno, per ordine del presidente turco Erdoĝan. L’obiettivo del governo turco di una zona di interdizione aerea riguardante una striscia di una quarantina di chilometri di territorio siriano lungo gli 800 chilometri del confine con la Turchia fa inoltre temere attacchi aerei e anche via terra da parte turca contro i cantoni e le città del Rojava liberati dalle milizie curde-siriane del PYG, organizzazione sorella del PKK. La città di Kobanê, le cui miliziane hanno spiegato al mondo intero meglio di migliaia di pagine e di discorsi che cosa è e perché lotti la militanza curda, rischia dunque, dopo essere stata liberata dall’ISIS, di essere attaccata e sopraffatta dall’esercito turco. Erdoĝan è stato molto chiaro a questo riguardo: la Turchia (cioè lui e il peggio razzista, fondamentalista e antidemocratico della politica, degli apparati statali e della popolazione della Turchia) non accetterà mai la formazione di una realtà curda autogovernata sul proprio confine meridionale, per di più saldata al territorio curdo autogovernato nel nord dell’Iraq. La dichiarazione che la zona di interdizione aerea verrebbe affidata all’Esercito Libero Siriano (uno dei gruppi anti-Assad) è solo una risibile copertura: le milizie di questo gruppo sono ridotte a poche centinaia di individui, parte dei quali già cooperano con le milizie curde siriane, indirizzate a ciò dagli Stati Uniti. C’è quindi stata, come si vede, un’improvvisa svolta di Erdoĝan, concordata, anche se non è chiarissimo in quali termini esatti, con il presidente degli Stati Uniti Obama (non ha senso parlare del governo turco attuale guidato da Davutoĝlu e formato dal solo partito di Erdoĝan, l’AKP: questo governo, provvisorio e minoritario in parlamento, non ne ha ancora chiesto la fiducia, può operare solo sul terreno dell’ordinaria amministrazione, prende ordini da Erdoĝan, il quale così opera abusando dei poteri che la costituzione turca gli assegna, limitati più o meno come in Italia). Vediamo perché, a grandi tratti, Erdoĝan abbia operato questa svolta. Giustamente molti commentatori hanno scritto che si tratta prima di tutto di un effetto dell’accordo firmato a Vienna tra Iran da una parte e Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania, Cina, Russia e Unione Europea dall’altra, che pone fine al contenzioso sul (mai esistito) potenziale militare atomico dell’Iran. L’Iran è impegnato militarmente a fondo contro lo Stato Islamico, in Iraq con proprie truppe e con istruttori e quadri militari assegnati al non efficientissimo esercito iracheno e alle milizie sciite irachene, in Siria con istruttori e quadri militari assegnati all’esercito siriano e agli hesbollah libanesi, alleati della Siria. L’Iran inoltre è indirettamente in guerra con l’Arabia Saudita e con altre monarchie sunnite (Qatar, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Kuweit, Giordania) nello Yemen. L’accordo tra Iran e Stati Uniti (lasciamo perdere gli altri attori delle trattative di Vienna: la partita iraniana è stata tutta una creatura degli Stati Uniti) ha quindi immediatamente sconvolto l’intero quadro medio-orientale. Ha imposto, cioè, l’accordo politico tra le varie realtà statali e non statali sunnite, prima in molteplici conflitti tra loro. L’Arabia Saudita, portatrice di una forma particolarmente retrograda dell’Islam, aveva un contenzioso aperto con la Turchia di Erdoĝan, figura questi rigorosamente legata alla tradizione dei Fratelli Mussulmani, ed era alleata all’Egitto, il cui governo militare è espressione di un golpe che ha rovesciato un governo dei Fratelli Mussulmani. L’Arabia Saudita finanzia e arma in Siria al Nusra (cioè al Qaeda), il Qatar, almeno fino a tempi recentissimi, lo Stato Islamico, antagonista anche dell’Arabia Saudita, Ma, appunto, lo sdoganamento statunitense dell’Iran ha obbligato questi due paesi (i fondamentali galli nel pollaio) e, in coda, gli altri paesi sunniti, Hamas palestinese e altre milizie operanti in Siria a coalizzarsi, lasciando perdere le vecchie storie. Il sommovimento in corso non riguarda perciò solo la Turchia: c’è un intero blocco di stati e di milizie preoccupati del pericolo di un’intensificazione della presenza militare e politica dello sciita Iran in Medio Oriente. Tra essi, giova aggiungere, c’è l’ebraica Israele: che per la seconda volta ha attaccato in Siria truppe hezbollah guidate da ufficiali iraniani (e che da tempo coopera al livello discreto dei servizi di intelligence con l’Arabia Saudita). Quanto a Erdoĝan le motivazioni sono in parte le stesse e in parte diverse dei suoi compari fondamentalisti sunniti. Le stesse motivazioni consistono nell’appartenenza sunnita e nel legame storico dell’AKP alla storia e alle organizzazioni dei Fratelli Mussulmani. Erdoĝan in specie è un fanatico il cui obiettivo è di fare della Turchia qualcosa che assomigli il più possibile al califfato ottomano di prima del suo crollo militare nel 1918 e della dittatura repubblicana laica e occidentalizzante di Atatürk. Solo così si spiega perché Erdoĝan abbia smarcato progressivamente la Turchia dal suo rapporto agli Stati Uniti, all’Occidente e alla NATO, conservando solo quei rapporti formali che consentono alla Turchia di essere della NATO il secondo apparato militare, cioè secondo solo a quello degli Stati Uniti. Un ipotetico Erdoĝan laico (così come un qualsiasi governo turco di ispirazione laica) avrebbe usato l’entrata in campo dello Stato Islamico per operare militarmente con tanto di benedizione degli Stati Uniti in Siria e nel nord dell’Iraq, costituirvi realtà politiche di proprio affidamento, prendersi il loro petrolio: se ciò non è avvenuto è perché Erdoĝan è stato bloccato dal fatto dell’appartenenza dello Stato Islamico al comune Islam sunnita fondamentalista radicale. Nei due anni di esistenza dello Stato Islamico la Turchia ha aiutato in tutti i modi lo Stato Islamico: cosa prima negata od occultata in Occidente da governi e mass-media, ma che dopo Kobanê è diventata cognizione universale. Soprattutto, solo così si spiega come mai, come dichiarano le realtà curde sul confine turco-siriano, non sia vero che l’aviazione turca sia impegnata contro lo Stato Islamico. Semplicemente non risulta, a parte, all’inizio, qualche bomba su niente; che quest’aviazione sia impegnata contro lo Stato Islamico sono balle turche. Essa è impegnata a fondo, invece, contro gli insediamenti veri o presunti del PKK in Turchia e in Iraq. E’ vero che Erdoĝan ha concesso agli Stati Uniti le basi aeree di Adana (İncirlik) e Diyarbakır, grazie alle quali l’aviazione statunitense migliorerà significativamente le sue capacità operative: ma ha proibito che i bombardamenti da parte di quest’aviazione contro i miliziani dello Stato Islamico avvengano a difesa di posizioni tenute dai curdi siriani: ciò che dice davvero tutto su chi per Erdoĝan è il nemico reale e unico. Ho accennato a come le motivazioni di Erdoĝan siano anche sue particolari. Tutto questo infatti non sarebbe accaduto (cioè la svolta non ci sarebbe stata) se Erdoĝan avesse vinto le recenti elezioni politiche turche. Ma le ha perse: e le ha perse perché il partito curdo legale di Turchia, l’HDP, ha superato la soglia di sbarramento del 10%, ha portato in parlamento un’ottantina di deputali e ha impedito così all’AKP di Erdoĝan di conquistare la maggioranza parlamentare assoluta e puntare alla trasformazione della Turchia in repubblica presidenziale, avvicinando così l’obiettivo del califfato o, più precisamente, della dittatura personale fondamentalista. E’ vero che Erdoĝan potrebbe tentare l’alleanza con il partito storico laico-kemalista CHP: ma questo significherebbe un allineamento reale agli Stati Uniti, quindi la guerra sul serio allo Stato Islamico: perciò niente da fare. Dal suo punto di vista c’è quindi la necessità di tornare rapidamente alle elezioni politiche: e per vincerle occorre una drammatizzazione estrema sul versante del rapporto tra lo stato e la popolazione curda, occorre cioè ricreare in Turchia una situazione più o meno di guerra civile; solo questo potrebbe consentire la repressione aperta nei confronti dell’HDP, l’impossibilità per esso (o per un altro partito legale curdo) di superare lo sbarramento del 10%, la riconquista da parte dell’AKP della maggioranza parlamentare assoluta, di riprendere la marcia verso il califfato. Aggiungo che la fretta di Erdoĝan deriva anche dal fatto che la radicalizzazione da questi impressa su più piani alla situazione turca sta lacerando l’AKP: parte di esso vorrebbe l’accordo con il CHP. A maggior ragione occorre portare questa radicalizzazione all’estremo, creare una situazione irreversibile; e portarcela alla svelta. Gli Stati Uniti hanno combinato un bel casino. Timorosi, a seguito dell’intesa con l’Iran, di perdere qualsiasi residuo legame con Arabia Saudita, Turchia, Israele, hanno avuto la pensata di “riequilibrare” la situazione mediorientale “alterata” da un futuro ovvio incremento di presenza iraniana tentando un accordo con un Erdoĝan in difficoltà, consentendogli, in cambio delle basi aeree, di attaccare il “terrorismo” del PKK. Dove? Anche nel nord dell’Iraq, non solo in Turchia? Non è chiaro. In ogni caso, gli Stati Uniti hanno consentito alla Turchia di colpire il PKK. D’altra parte gli Stati Uniti consentirono a suo tempo alla richiesta turca di collocare il PKK in un elenco di organizzazioni terroriste che poi imposero ai loro alleati europei, e il PKK in quest’elenco è rimasto, nonostante il suo contributo militare decisivo a impedire che la realtà curda del nord dell’Iraq fosse invasa e distrutta dallo Stato Islamico. Non solo: in quest’elenco ci sta anche il PYD curdo di Siria, cioè l’organizzazione politica dei curdi che combattono in Siria. Come dire di no, quindi, all’alleata Turchia, partner importate nella NATO? Sulla scia degli USA gli altri membri della NATO e la NATO come tale si sono ovviamente profusi in riconoscimenti alla Turchia del valido contributo in avvio contro lo Stato Islamica, dell’inevitabilità che essa “reagisse agli attacchi del terrorista PKK”, dunque della necessità di colpirne gli insediamenti anche in Iraq: purché, ovviamente, “misurasse la sua reazione” e, naturalmente, non chiudesse le trattative con le parti curde per una soluzione della questione curda. Quali trattative? E’ dal 2013 che Erdoĝan le ha interrotte e rifiuta di riprenderle. E’ anche in atto sottotraccia una polemica tra Turchia e Stati Uniti sulla denominazione della zona di interdizione in Siria lungo la frontiera turca: in realtà è chiamata in questo modo solo da parte turca, mentre da parte statunitense la denominazione oscilla ed è meno impegnativa, a significare (senza dirlo) che i curdi di Siria non dovrebbero entrare nel mirino degli aerei turchi. Tutto questo se non si trattasse di bombe su villaggi di povera gente disarmata sia in Turchia che in Iraq sarebbe semplicemente ridicolo. Come tutti i governi occidentali ben sanno, e ben sanno i direttori dei mass-media, la bomba al comizio di chiusura dell’HDP a Diyarbakır alla vigilia delle elezioni e la bomba che ha ucciso recentemente nella città curdo-turca di Suruç trentadue ragazzi curdi e turchi di sinistra che volevano portare giocattoli ai bimbi di Kobanê le hanno messe agenti del MİT cioè dell’intelligence turca (su ordine di Erdoĝan: il capo del MİT è un suo fedelissimo); o, forse, il che però è lo stesso, queste bombe le hanno messe figure dello Stato Islamico collegate al MİT. Da parte del PKK, giova rammentare, si è tentato di tutto per risolvere la questione curda di Turchia pacificamente. La rivendicazione di uno stato curdo indipendente fu abbandonata almeno vent’anni fa, sostituita dall’autonomia dei territori curdi e dal riconoscimento dei diritti culturali (linguistici ecc.) della popolazione curda. Un avvio più recente di trattative portò all’avvio del ritiro degli armati del PKK dal territorio turco verso l’Iraq, nonostante la Turchia non si fosse impegnata alla cessazione delle sue azioni militari; interrotte queste trattative nel 2013 da Erdoĝan senza alcun motivo che il suo uso strumentale della questione curda, il ritiro degli armati del PKK fu sospeso; le poche migliaia di miliziani del PKK rimasti in Turchia si asterranno da iniziative militari, fatto salvo l’esercizio dell’autodifesa dai frequenti attacchi turchi. E così è stato fino a pochi giorni fa. Due parole anche sui bombardamenti turchi sul Curdistan turco e su quello iracheno. Gli insediamenti reali del PKK sono ben protetti: chi viene assassinato da parte dell’esercito e dell’aviazione della Turchia sono in genere contadini, pastori, gente disarmata che non ha mai fatto la guerra a nessuno. Si deve tenere conto di come la fuga di profughi curdi dalla Turchia verso l’Iraq cominciò con l’inizio stesso, nel 1982, della guerra dichiarata dal PKK alla Turchia, in risposta alla feroce repressione militare e di polizia, alle stragi di contadini, alla distruzione di 4.000 villaggi, alle migliaia di carcerati senza processo, alle centinaia di desparecidos curdi e non solo (per esempio aleviti, cioè sciiti) contestuali all’impedimento di ogni possibilità di organizzazione politica curda e di esercizio stesso della lingua curda ordinato dai militari autori nel 1980 di un golpe di estrema destra razzista. In oltre trent’anni questi profughi si sono diffusi in larga parte del Curdistan iracheno, i loro ragazzi e le loro ragazze si sono sposati con curdi e curde iracheni; i “villaggi del PKK” oggi bombardati sono in realtà villaggi abitati da curdi originari della Turchia, dai loro figli nati in Iraq, da curdi iracheni, e tutti quanti fanno i contadini o esercitano le altre attività tipiche dei villaggi mediorientali. Tra essi ci sono affiliati al PKK ma anche ad altre organizzazioni, tra le quali irachene. Ma il problema di Erdoĝan in realtà non è neppure la distruzione del PKK: è il massimo, dal suo punto di vista, di guerra civile da attivare in Turchia provocando all’estremo la popolazione curda. Che questo sia il metodo usuale di trattamento dei curdi, da ben prima di Erdoĝan, da parte delle forze armate turche, delle forze di polizia turche, del MİT ecc. ma pure dei governi occidentali lo attesta abbondantemente anche un importante fatto recente. Il 9 gennaio del 2013 tre militanti curde operanti in un ufficio a Parigi di rappresentanza delle organizzazioni curde di Turchia, Sakîne Cansız, Fidan Doĝan e Leyla Söylemez, furono assassinate da un curdo-turco. Da parte del governo turco si dichiarò che si trattava dell’effetto di una faida tutta interna ai curdi; un giudice francese (un fascista negazionista), la polizia francese e i servizi francesi accreditarono questa versione. L’emergenza rapida di prove, grazie all’intervento di avvocati democratici francesi, che affermavano che si era trattato di un’operazione realizzata da un agente del MİT annullò la credibilità della versione del governo turco e dei suoi complici francesi. A lungo non si è saputo altro se non che l’iniziativa degli avvocati francesi proseguiva, nel tentativo di riaprire la questione sul piano legale. Nei giorni scorsi la magistratura francese ha riaperto la questione indicando in agenti del MİT i responsabili diretti, in Francia, e indiretti, ad Ankara, del triplice assassinio. Infine niente di strano, mi pare, che gli Stati Uniti abbiano fatto casino. Sono storicamente abituati a sparare prima di pensare ergo ad attivare guerre spesso insensate, dato che poi i costi sono a carico di altri. Del disastro mediorientale gli Stati Uniti hanno la responsabilità primaria, e sarebbe però davvero strano che tentassero di affrontarlo razionalmente, per esempio imponendo al governo colonialista e fondamentalista israeliano il riconoscimento del diritto palestinese a uno stato entro i confini definiti come legali dalle Nazioni Unite dopo la guerra del 1967 tra Israele da una parte ed Egitto, Siria e Giordania dall’altra, inoltre finalmente si accorgessero che il fondamentalismo islamico è un problema planetario non limitato ad al Qaeda o allo Stato Islamico ma che si chiama pure Arabia Saudita, Qatar e in questo momento anche Turchia.
Come le cose si svilupperanno non si sa esattamente. Concretamente esse dipendono prevalentemente da ciò che Erdoĝan riterrà opportuno fare a nome dell’obiettivo di prossime elezioni vinte, parzialmente anche dagli Stati Uniti. C’è di che essere tutt’altro che tranquilli.
Milano, 2 agosto 2015