“Ciò che più ci minaccia oggi non è la sfiducia dei mercati, bensì quella dei popoli che governiamo; non si sentono più rappresentati dai sistemi politici nazionali e da quello europeo”: non usa mezzi termini il Presidente francese, François Hollande, per parlare della grave crisi economica, democratica e di rappresentanza che affligge l’Unione europea, “un effetto diretto dell’austerità”, aggiunge. Le severe politiche antisociali di consolidamento fiscale e di bilancio, infatti, hanno indotto un preoccupante salto di qualità della natura dei problemi che l’Unione ha di fronte: l’austerità non è più solo all’origine del processo di desertificazione economica ed industriale dell’UE, con i suoi livelli record di disoccupazione e recessione; ma ormai, agendo come catalizzatore ed acceleratore del processo di disgregazione sociale e democratica in gran parte degli Stati Membri UE, ha intaccato il cuore stesso del progetto di integrazione europea, ha allontanato in modo forse irreversibile i popoli europei dal progetto comunitario che regge solo se vengono fornite garanzie in termini di produzione, trasmissione e condivisione della ricchezza interna, ha dato libero sfogo nell’UE ad una serie di spinte politiche centrifughe che ne minacciano l’esistenza.
Siamo arrivati ad un tale punto di criticità sistemica che le istituzioni europee, avvolte in una spirale austericida, stanno compiendo una parziale inversione di rotta, se non altro per quanto riguarda la narrazione politica e simbolica dell’austerità. Dice ancora François Hollande: “L’Europa ha la necessità urgente di uscire dal paradosso in cui si trova: è ancora la prima potenza commerciale al mondo ma è destinata al declino definitivo se insiste con l’austerità. La recessione rappresenta una minaccia per l’esistenza e l’identità stesse dell’Unione europea. Se non cambia, l’UE sparirà dalla mappa del mondo e dall’immaginario collettivo. Bisogna passare all’offensiva e scuotere l’Unione dall’apatia in cui giace”. Persino la Cancelliera tedesca Angela Merkel – complice forse la campagna elettorale in corso – ammette che l’austerità da sola non basta più, per non parlare dei recenti richiami del Presidente BCE, Mario Draghi, a nuove politiche di crescita e redistribuzione del reddito. Anche l’imperturbabile Presidente della Commissione europea, Manuel Barroso, annusando la nuova aria che tira, afferma adesso che “benché fondamentalmente giuste, le attuali politiche fiscali di consolidamento hanno raggiunto i loro limiti”. Come si è arrivati a questo punto? Perché gli storici evangelisti dell’austerità sembrano oggi voler cambiare rotta? O si tratta solo di una nuova strategia di comunicazione?
I punti di criticità sono almeno di due ordini, economico-finanziario e politico-democratico. In una prima fase, le politiche di austerità della troika BCE-FMI-UE sono state applicate in tutta la loro aggressività antisociale e assurdità economica nei paesi della cosiddetta periferia europea: Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e più recentemente Cipro. L’Italia ha applicato le stesse politiche in modo solo apparentemente più autonomo, non per questo abbiamo evitato l’emergenza sociale, anzi. A nessuno importava davvero del massacro sociale generalizzato prodotto dall’austerità in questi paesi, ancora meno del crollo verticale del loro PIL. L’ondata della recessione e lo smantellamento d’intere filiere industriali, invece, si sono abbattuti per contagio sull’insieme dell’Unione europea, in particolare l’Eurozona. Qualcuno pensava forse di salvarsi da solo, ma la recessione ha travolto anche la Gran Bretagna e la Francia, due grandi economie europee; la crescita tedesca è stagnante, ferma a pochi decimali di percentuale grazie solo ad un euro debole rispetto al dollaro che ne facilita le esportazioni extra-UE, quelle intra-UE sono crollate da tempo; anche la virtuosa Olanda, che ha sempre fatto la voce grossa con Atene o Roma, non esclude adesso l’ipotesi di accedere a prestiti europei, mentre nuove nubi si addensano sulla Slovenia, prossima candidata a futuri interventi della troika. L’Unione europea sarà ancora in recessione economica durante tutto il 2013, altro che uscita dal tunnel.
È ormai inoltre assodato che l’austericidio ideologico imposto dalla destra europea si fonda su clamorosi errori econometrici e di parametratura statistica delle politiche di austerità. Il recente mea culpa e le scuse ufficiali offerte al popolo greco da parte del Fondo Monetario Europeo per gli errori matematici commessi nelle previsioni d’impatto delle politiche di austerità sui reali tassi di crescita e disoccupazione sono senza precedenti: l’FMI ha riconosciuto che alcuni algoritmi contenuti nei suoi piani di elaborazione delle politiche da applicare in Grecia hanno ampiamente sottovalutato gli effetti sociali nefasti dell’austerità. Come se ciò non bastasse, tre studenti americani di un’università d’economia del Massachusetts hanno scoperto errori simili contenuti nell’impianto statistico alla base di un acclamato studio di due professori di Harvard, Reinhart e Rogoff, nel quale si dimostra che un rapporto debito/PIL superiore al 90% ammazza automaticamente la crescita: tutte sciocchezze, poiché l’università del Massachusetts arriva a conclusioni opposte usando semplicemente in modo più accurato alcuni parametri matematico-statistici, cosa che ad Harvard non è stata fatta. Un dibattito che ha scatenato il pandemonio tra gli economisti di tutto il mondo, anche perché le dissertazioni di Reinhart e Rogoff, che hanno parzialmente ammesso l’errore, sono alla base dell’impianto scientifico- ideologico dell’austerità. La teoria della soglia del 90%, infatti, è ripresa in numerosi studi e documenti della troika BCE-FMI-UE.
Sul piano politico, lo scostamento tra cittadini e politica è ormai abissale, l’evidente crisi democratica e di rappresentanza sta travolgendo l’UE. Sono almeno dodici i governi europei che sono stati spazzati via per problemi di gestione economica dell’austerità e di consolidamento dei deficit, dall’irlandese Brian Cowen nel gennaio 2011 al bulgaro Boiko Borisov nel febbraio 2013, una lista destinata ad allungarsi. In Europa emergono nuove forze politiche che si autodefiniscono antisistema; altre sono decisamente antieuropee e pretendono l’uscita del loro paese dall’UE; altre sono apertamente nazionaliste e di estrema destra, persino neonaziste come la greca “Alba Dorata”. In troppi casi si tratta di movimenti in forte crescita elettorale, tanto che gli austeriani -come li chiama l’economista USA Paul Krugman- stanno già agitando lo spauracchio di un’Europa dominata dagli euroscettici, come se gli adepti del rigore ideologico non avessero nessuna responsabilità in questa faccenda. L’austerità, insomma, scardina la democrazia: quando viene negato il diritto al lavoro è il contratto sociale che ci mantiene uniti e solidali ad essere in pericolo, a maggior ragione se si procede allo smantellamento del modello sociale europeo.