Così uccidemmo il giudice Falcone

"Così uccidemmo il giudice Falcone, ma dietro le stragi non c'è solo mafia"

immagine dal sito de La Repubblica

L’auto di Giovanni Falcone e quella della scorta sventrate dopo l’esplosione del 23 maggio 1992 a Capaci 

“Così uccidemmo il giudice Falcone, ma dietro le stragi non c’è solo mafia”

Parla Gioacchino La Barbera, il boss che sistemò il tritolo a Capaci e diede il segnale per l’esplosione: “Nel gruppo anche uno che non era dei nostri, forse un uomo dei servizi”

di RAFFAELLA FANELLI

“SENTII un boato, fortissimo, poi vidi alzarsi un’enorme nuvola di fumo alta quasi cinquanta metri…”. Seduto in poltrona, in jeans e camicia bianca, Gioacchino La Barbera racconta quel pomeriggio del 23 maggio 1992, giorno della strage di Capaci. L’ex uomo d’onore della famiglia mafiosa di Altofonte, collaboratore di giustizia condannato a 14 anni grazie agli sconti per il pentimento, apre le porte della sua casa. Ha un altro nome, una nuova vita, e ci chiede di mantenere segreta la località dove vive sotto protezione. “Fui io a dare il segnale agli altri appostati sulla collina. Ero in contatto telefonico con Nino Gioè. Sapevamo che il giudice sarebbe arrivato di venerdì o sabato… Era tutto pronto, e il cunicolo già imbottito di esplosivo. Ce lo avevo messo io, due settimane prima. Quando mi dissero che la macchina blindata era partita da Palermo per l’aeroporto mi portai con la mia Lancia Delta sulla via che costeggia l’autostrada Palermo-Punta Raisi, all’altezza del bar Johnnie Walker… Seguii il corteo delle macchine blindate parlando al cellulare con Gioè. Andavano più piano del previsto, sui 90-100 chilometri orari… Chiusi la telefonata dicendo vabbè ci vediamo stasera… amuninni a mangiari ‘na pizza”.
Una donna avrebbe raccontato di uomini in mimetica sul tetto della Mobiluxor, il mobilificio a ridosso dell’autostrada. E, stando ad altre testimonianze, ci sarebbe stato un misterioso aereo a sorvolare quel tratto della Palermo-Punta Raisi…
“Degli uomini in mimetica non so niente… Ma vidi un elicottero, forse della protezione civile o dei carabinieri”.

Durante la strage di Capaci, o durante la preparazione, notò qualcuno estraneo a Cosa Nostra?
“C’era un uomo sui 45 anni che non avevo mai visto prima. Non era dei nostri… Arrivò con Nino Troia, il proprietario del mobilificio di Capaci dove fu ucciso Emanuele Piazza, un giovane collaboratore del Sisde che pensava di fare l’infiltrato”.

Potrebbe essere lo stesso uomo che tradì Emanuele Piazza, quindi un uomo dei servizi?
“In questi anni mi hanno mostrato centinaia di fotografie ma non l’ho mai riconosciuto… Evidentemente mi hanno mostrato quelle sbagliate”.

Nino Gioè, capomafia di Altofonte e uomo fidato di Totò Riina, si sarebbe impiccato la notte tra il 28 e 29 luglio del ’93, il giorno successivo agli attentati a Milano e Roma. Gioè si suicidò o fu ucciso?
“Non so se si è suicidato. Rispondendo a questa domanda mi fa mettere nei guai funzionari della Dia che con me si sono comportati bene… Che mi hanno aiutato. Sapevo che avevano fatto dei verbali con lui. Gioè stava collaborando, ne sono certo. Ero nella sua stessa sezione, insieme a Santino Di Matteo, e Gioè era l’unico a ricevere visite. La mia finestra dava sulla strada e vedevo un viavai di macchine e di persone che arrivavano per lui. Pochi giorni prima della sua morte, dal carcere di Rebibbia mi trasferirono a Pianosa mentre Di Matteo fu tradotto all’Asinara”.

Il boss Francesco Di Carlo ha dichiarato che le stragi furono pianificate in una villa di San Felice Circeo, nella provincia di Latina, in una riunione del 1980 a cui avrebbero partecipato anche numerosi iscritti alla loggia massonica P2.
“So di riunioni con generali e di incontri tra Riina ed ex ministri democristiani. I loro nomi sono stati fatti, come quelli dei giudici che aggiustavano i processi… che ne parliamo a fare. Il fratello di Francesco Di Carlo, Andrea, faceva parte della commissione, e sapeva quello che Riina avrebbe fatto. Per questo si consegnò prima delle stragi: non voleva responsabilità”.

La famiglia di Bernardo Provenzano rientrò a Corleone per lo stesso motivo?
“Anche Provenzano sapeva, mi pare ovvio. La decisione di far tornare a Corleone la moglie e i figli un mese prima di Capaci potrebbe non essere stato un caso… Ma è una mia deduzione”.

L’omicidio Lima: Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante hanno confessato il delitto. Ma furono davvero loro a uccidere?
“Contano poco i nomi. Vuole sapere se ci fu una collaborazione dei servizi segreti? Ci fu. C’erano uomini dei servizi sul Monte Pellegrino”.

L’omicidio Mattarella?
“Per quel che ne so io, fu voluto da politici”.

Ci sono delle intercettazioni in casa Guttadauro fra il medico di Altofonte Salvatore Aragona e il boss Giuseppe Guttadauro sulla morte di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Alla domanda su chi commissionò l’omicidio, il boss risponde: estranei a Cosa Nostra…
“Discorsi da ufficio, non avrebbero potuto sapere. Credo che Dalla Chiesa sia stato ucciso per fare un favore. Ma non ho le prove”.

La strage di via D’Amelio. Lei sapeva delle false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino?
“Mi assumo la responsabilità di quello che sto dicendo: all’inizio della mia collaborazione mi fu proposto di fare un confronto audio visivo con lo stesso Scarantino alla presenza dei carabinieri che l’avevano in gestione, funzionari della Dia e i magistrati di Caltanissetta che allora si occupavano del caso. Durante il confronto lo sbugiardai. Dissi subito che Scarantino non sapeva cose importanti di Cosa Nostra. Di quel confronto non c’è traccia: sono spariti verbali e registrazioni”.

Si parla sempre di liste di nomi, di archivi spariti dalla villa di Totò Riina… Ma esistono questi documenti? Perché non sono mai state trovate carte importanti nei covi di Nitto Santapaola o di altri capi mandamento? Solo Riina aveva archivi?
“Riina non era un capo. Era il capo di Cosa Nostra… Dopo il suo arresto accompagnai, insieme a Nino Gioè, i figli e la moglie di Riina fino alla stazione, da lì presero un taxi per Corleone. Poi seguii la pulizia e l’estrazione della cassaforte dalla villa di via Bernini e portai in un parcheggio la golf bianca intestata a un giardiniere della provincia di Trapani, non ricordo se Marsala o Mazara. Un’auto che ritirò Matteo Messina Denaro, con tutto quello che era stato trovato nella cassaforte. L’auto non era di valore quindi posso pensare che fossero più importanti i documenti”.

Ha conosciuto il Capitano Ultimo?
“Mai visto. So che Bagarella ha messo una taglia sulla sua testa dopo l’arresto del cognato. Mi impressionò la sua rabbia e la determinazione a vendicarsi. Era impazzito: dava soldi a tutti i carabinieri e poliziotti che ci portavano notizie. Lo voleva, e lo vuole morto. Sarà pure in 41-bis ma è un furbo: lui sa che è questo il momento giusto per farlo fuori”.

fonte: La Repubblica

http://www.repubblica.it/cronaca/2015/09/19/news/_cosi_uccidemmo_il_giudice_falcone_ma_dietro_le_stragi_non_c_e_solo_mafia_-123198075/?ref=HREC1-1