Così si continua a morire di lavoro

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Stato assente e leggi inefficaci – Così si continua a morire di lavoro

Mentre si festeggia il Primo Maggio, le statistiche fotografano un Paese in cui si continua a perdere la vita nei cantieri e nelle fabbriche. E la battaglia per la sicurezza sembra interessare solo ai familiari delle vittime e a pochi altri

di Michele Azzu

«Stato… Stato… giustizia…», dice così il padre di una delle vittime del rogo alla Thyssen di Torino, in cui morirono sette operai nel dicembre 2007. Dice queste poche parole, all’uscita del tribunale. Perché loro, i genitori dei morti sul lavoro, nello Stato non credono più: «Lo Stato non ha fatto niente. Noi moriamo assieme ai nostri figli», dice una madre.

La Cassazione ha ordinato un nuovo processo sul rogo della Thyssen, annullando in parte le condanne della Corte d’Assise che già riduceva le pene della sentenza di primo grado. Sentenza definita “storica” perché, per la prima volta, condannava un amministratore delegato, Harald Espenhahn, per omicidio volontario.

Carlo Soricelli si sente abbandonato. Lui è direttore dell’ Osservatorio morti sul lavoro e da anni conduce una battaglia di verità sui numeri Inail delle vittime, che non includono le partite Iva, i non assicurati Inail, i morti in itinere, le forze dell’ordine. «L’Inail fa un lavoro egregio ma non ha nessun potere per intervenire su categorie che non assicura», scrive Soricelli.

In questi ultimi giorni le morti sono cresciute in maniera esponenziale: «169 dall’inizio dell’anno, il 20,3% in più rispetto allo stesso giorno del 2013. Se si aggiungono i non assicurati Inail si superano complessivamente i 330 morti», scrive Soricelli. E c’è qualcosa di profondamente sbagliato se gli incidenti mortali avvengono dove sono già accaduti: nei cantieri della metro di Roma, negli stabilimenti Marcegaglia, nelle aziende ittiche di Molfetta, all’Ilva di Taranto.

Da sabato 26 aprile Soricelli ha iniziato uno sciopero della fame. In tanti hanno aderito al suo appello per indossare il lutto al braccio il 1 maggio: l’ex senatore Walter Vitali, il segretario Fiom Bruno Papignani. Con lui anche Graziella Marota, madre di Andrea Gagliardoni, morto a 23 anni. Graziella nel 2006 è stata nominata “cavaliere del lavoro” al Quirinale. Dalla più alta carica di quello Stato che poi scompare, per le vittime di questa strage silenziosa. E senza colpevoli.

GLI INCIDENTI SI RIPETONO.
Lo scorso 18 aprile sei operai al lavoro nel cantieri della metro C a Roma, hanno rischiato di annegare per la rottura di una tubatura. Il 22 maggio 2011 al cantiere della metro B1 moriva l’operaio abruzzese Bruno Montaldi, caduto in un pozzo profondo trenta metri. Il 29 Febbraio 2012 moriva invece Luigi Ternano, 26 anni, cadendo in un pozzo di 40 metri.

Lo scorso 8 aprile alla fabbrica Marcegaglia di Ravenna – di proprietà dell’ex presidente di Confindustria, attualmente designata alla presidenza Eni – moriva Lorenzo Petronici, operaio degli appalti. Schiacciato da un carico di acciaio da quasi 30 tonnellate che stava manovrando. Nell’altro stabilimento Marcegaglia, in provincia di Mantova, nel 2010 gli infortuni sul lavoro sono stati 135 su un totale di 1.183 dipendenti. Quattro volte oltre la media italiana, come denuncia la Fiom Cgil lombarda.

Sempre l’8 aprile a Molfetta sono morti due lavoratori, padre e figlio, annegati nella cisterna per la raccolta di liquami. Si è salvato l’altro fratello, Alessio, di 21 anni: «Con mio padre e mio fratello dovevo pulire la cisterna interrata. Ricordo solo di aver battuto la testa», racconta. L’episodio è accaduto poco lontano dall’’azienda Truck Center, dove nel 2008 morirono 5 persone asfissiate dalle esalazioni della cisterna.

Il 7 aprile Teodoro Tamburriello, operaio dell’indotto dell’Ilva di Taranto è caduto dal pianale del Tir dove stava lavorando, rimanendo gravemente ferito. L’11 aprile il sindacato Usb ha proclamato lo sciopero. Dal 2012 ad oggi all’Ilva sono tre i morti: Claudio Marsella di 29 anni, caduto dalla motrice. Francesco Zaccaria, 29 anni, portato via dalla tromba d’aria. Ciro Moccia, 42 anni, precipitato da 10 metri. Poi Andrea Incalza, 22 anni, che ha perso le gambe, mentre solo lo scorso febbraio Gabriele Scialpi, 28 anni, se le è fratturate entrambe.

LE PROCEDURE D’INFRAZIONE EUROPEE.
Com’è possibile? Forse la legge non tutela a dovere, forse le sanzioni sui responsabili non sono adeguate. La pensa così l’Unione Europea: nel 2009 Marco Bazzoni – metalmeccanico di Firenze che da anni si impegna per la sicurezza – ha scritto una denuncia alla Commissione Europea sulla conformità del recepimento in Italia (d.lgs 106/09) della direttiva europea 89/391/CEE, volta a promuovere la sicurezza e la salute sul posto di lavoro.

La Commissione ha approvato il progetto di ‘costituirsi in mora’ contro lo Stato italiano e ora sta esaminando altre 600 pagine di documenti inviate da Bazzoni. Due punti non convincono la Commissione: la deresponsabilizzazione del datore di lavoro e le tempistiche per redarre il documento sulla valutazione dei rischi (DVR) di una nuova impresa. Bazzoni ha di recente fatto una seconda denuncia relativa al “decreto Fare” del governo Letta, che riprende i contenuti del dl “semplificazioni bis” di Monti. Anche qui la Commissione ha dato ragione a Bazzoni.

LA LEGGE NON FUNZIONA.
Cosa cambia nel “decreto Fare” che mette a rischio la sicurezza? Ce lo spiega Marco Spezia, ingegnere che da anni si occupa di prevenzione. Il Duvri (Documento unico per la valutazione dei rischi da interferenze) serve per stabilire dei paletti per le aziende che affidano lavori in appalto. «Mettiamo che una grande azienda affidi in appalto la manutenzione o le pulizie. Col Duvri la grande azienda deve individuare i rischi», spiega Spezia. In questo modo i rischi “da interferenze” sono chiari. «Nel decreto semplificazioni bis del governo Monti (poi ripreso nel decreto Fare), invece, si elimina il Duvri e si nomina un coordinatore. Ma se un coordinatore deve gestire dieci ditte contemporaneamente i rischi sono troppo alti», conclude.

L’Italia non è nuova a leggi sulla sicurezza che non piacciono all’Unione Europea. Come la norma “salva manager” del 2009, nel decreto al Testo Unico di Berlusconi, che rischiava di far assolvere i manager Thyssen. O il passo falso nel decreto lavoro di Renzi, che cancellava la formazione esterna all’azienda (ora pare reintrodotta) per gli apprendisti, eliminando anche i corsi sulla sicurezza: «Non si può, in un paese in cui ancora quattro persone al giorno muoiono sul lavoro», spiega Idilio Galeotti, sindacalista del Nidil, la Cgil dei precari.

UN PEZZO DI PAESE CHE LOTTA NEL SILENZIO.
I giovani, la formazione e la sicurezza sul posto di lavoro. A ripercorrere i nomi dei morti recenti si scopre che sono per lo più ventenni: «Più giovane muori sul lavoro, meno vale la tua vita», dice Graziella Marota. Lei, che come tante altre famiglie, ha ricevuto dall’Inail un assegno da 1.936,80 euro per la perdita del proprio figlio.

Per Alessandro Salvati, che coordina la banca dati infortuni dell’Inail, la discrepanza coi dati dell’Osservatorio è dovuta al fatto che «fanno un conteggio di morti presumibili, che potremo fare anche io e lei. Un istituto nazionale statistico rispetta certe regole».

Eppure i numeri complessivi, i casi recenti, i nomi delle aziende coinvolte e il ripetersi degli incidenti raccontano un’altra storia. Quella di un pezzo di paese che lotta in silenzio, e dove lo stato latita fioriscono le associazioni. Roberto e Valeria Toffolutti, Graziella Marota, Marco Bazzoni, Carlo Soricelli che ora è in sciopero della fame. I familiari della Thyssen. E quell’appello inascoltato, che ricorda la solitudine delle vittime delle stragi di Mafia: «Stato… Stato… giustizia…».

per ulteriori approfondimenti prego cliccare il seguente link:

http://espresso.repubblica.it/inchieste/2014/04/29/news/stato-assente-e-leggi-inefficaci-cosi-si-continua-a-morire-di-lavoro-1.163251

fonte: l’Espresso – La Repubblica