La conquista dei diritti dei lavoratori e il ritorno al licenziamento ad nutum del Jobs Act. Antonio Pizzinato racconta
Testo di Adriana Paolini
La riforma del lavoro attraverso la legge delega 183/2014, affossa il valore del lavoro che la Costituzione italiana gli aveva assegnato in termini di dignità, garanzie di libertà e di partecipazione alla costruzione della vita sociale del Paese.
Tutti i nuovi assunti del Job Act, in termini di tutele in caso di licenziamento, sono, infatti, solo risarciti. Questo atteggiamento riporta il lavoratore a uno squilibrio molto forte nel rapporto con il datore di lavoro e azzera al tempo stesso tutta la storia del diritto del lavoro che aveva introdotto strumenti di contenimento del potere padronale e di salvaguardia della dignità del lavoratore.
La grande ipocrisia alla base di questa operazione è che viene presentata come risanatrice di uno stato diffuso di precarietà, quando è vero esattamente il contrario.
Con le tutele crescenti, infatti, il ricatto del licenziamento diventa una spada, nella schiena del lavoratore, onnipresente, che azzera in anticipo qualsiasi discussione, qualsiasi contrattazione.
Grazie, infatti, al semplice pagamento di un risarcimento economico, l’azienda che ha licenziato senza giusta causa non ha più l’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro. E la cosa peggiore è che il Job Act prevede che il licenziato ha torto fino a prova contraria. Ma quale collega confermerà mai che il collega d’ufficio, della scrivania di fronte, licenziato per essersi attardato in pausa pranzo, era invece rientrato in orario, sapendo che poi potrà, a sua volta, divenire oggetto di rappresaglia aziendale?
Così, mentre il Governo dichiara e promette che questa nuova riforma del lavoro servirà a eliminare la precarietà e a tutelare maggiormente i nuovi assunti, in realtà condanna tutti i lavoratori a una maggiore precarietà, in nome di un progresso economico altrimenti impossibile.
Lo Statuto dei diritti dei Lavoratori, che venne approvato nel maggio 1970, durante il Governo Rumor e l’allora Ministro del lavoro Donat Cattin è, infatti, oggi ritenuto il maggior responsabile dell’attuale paralisi imprenditoriale, incapace a far ripartire l’economia, perché condannata a rimanere sotto i 15 dipendenti per potersi muovere in libertà. Ma un licenziamento illegittimo del 1970, è tal quale a un licenziamento illegittimo del 2015 che dovrebbe, per semplice civiltà, dar seguito alla reintegrazione nel posto di lavoro.
Non parliamo poi del demansionamento, solo per citare un altro caposaldo infranto, che consente al datore di lavoro di assegnare al dipendente mansioni inferiori, nel caso di modifica dell’organigramma aziendale, e di stipulare accordi individuali, che alterano non solo le mansioni iniziali, ma anche il livello di inquadramento e la relativa retribuzione. Con i tempi che corrono chi mai si opporrà?
Per capire cosa succedeva negli anni Settanta, e trarne ispirazione, per non scivolare in pericolose derive, difficilmente risanabili, il 25 Giugno del 2015, abbiamo chiesto un punto di vista ad Antonio Pizzinato, che ha avuto molte responsabilità ed esperienze, a partire dalla fabbrica come membro della commissione interna, a segretario della Fiom e della Camera del Lavoro milanese e lombarda, a segretario nazionale della CGIL e infine anche come parlamentare, senatore e sottosegretario al Lavoro del Governo Prodi.
Adriana Paolini. Qual’è la situazione oggi che la crisi economica e produttiva è approdata ad un punto di svolta senza precedenti? E perché la politica italiana, invece di affrontare le nuove sfide economiche, commercializza il lavoro come semplice merce e si dimentica dell’uomo e si dimentica anche che il lavoro è il centro della nostra Costituzione italiana.
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