Venerdì, 24 gennaio 2014
Riccione, la relazione di Nichi Vendola
Sono passati solo tre anni da quell’ottobre del 2010, quando decidemmo a Firenze di fondare un partito per cercare di riaprire la partita. Eppure sembra un secolo. Il mondo attorno a noi e dentro di noi ha viaggiato ad una velocità tale da farci rischiare continuamente uno schianto fatale. Quel 2010 è davvero lontano.
E’ trascorsa un’intera era geologica della politica, è lunghissima la distanza che ci separa dalle speranze e dai progetti del nostro Congresso fondativo. Le classi dirigenti hanno impedito che l’Italia stremata dalla lunga egemonia del berlusconismo potesse cercare un’uscita a sinistra dalla crisi del sistema: piuttosto che fare i conti con la biografia culturale del Paese, si è messa sotto accusa la politica in quanto tale. La politica, nel tempo lungo del primato dei mercati e dei loro sacerdoti denominati “tecnici”, si è degradata a livello di mercato elettorale. Si è costruita l’idea (un vero feticcio mediatico), che la decisione politica dovesse essere esternalizzata, delegata ad un commissario, cioè ad una figura priva di legittimazione democratica eppure investita di sovranità, nel nome della tempestività e oggettività delle scelte da compiere. La democrazia compressa e compromessa dallo strapotere dei mercati finanziari ha ceduto spazio e norme di regolazione sociale al primato dell’interesse privato, ha smesso di progettare e si è estenuata nella gestione proprietaria e spesso predatoria della cosa pubblica. A vederla da vicino la politica è insieme impotente e onnipotente, non si affanna in grandi narrazioni ma controlla ossessivamente tutti gli snodi del potere minuto, non si pone più le domande di fondo (come viviamo? cosa produciamo? che valore diamo alle persone e ai loro diritti?) ma offre la propria intermediazione alla trama degli interessi frammentari dei clientes, delle lobbies, dei campanili, delle piccole patrie. Insomma si adatta alla rappresentazione plastica di una società polverizzata nei suoi interessi e nella sua struttura e unificata culturalmente nei simboli e nei riti dell’individualismo consumista. Si usa il degrado del costume pubblico per sottrarre terreno alla politica e dunque alla democrazia. La moralità si esaurisce nel curriculum del manager-tipo, icona di quella nuova ipocrisia, o meglio di quella nuova egemonia, che chiamano meritocrazia. Com’è noto anche il merito ha un valore prevalentemente di mercato. La casta dei tecnocrati e dei loro specialisti in economia si attribuisce un compito salvifico, una vera missione religiosa: salvaguardare ciascuna decisione dal terribile rischio di una verifica, di una prova di efficacia. La decisione, veloce e dura, è in sé il bene che si contrappone al male. La procedura democratica è il male.
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