Il comunista nero

Articolo pubblicato su New Statesman

Il giorno della morte di Mandela il Partito comunista sudafricano scelse di rivelare un fatto che era stato a lungo negato: che egli era un membro del partito.
Anzi, al momento del suo arresto egli faceva parte del Comitato Centrale. La dichiarazione recita: “All’epoca del suo arresto nell’agosto 1962, Nelson Mandela non solo era un membro dell’allora clandestino Partito comunista sudafricano, ma faceva parte del Comitato Centrale del partito. Dopo la sua liberazione dal carcere nel 1990, Madiba divenne un grande e fidato amico dei comunisti fino alla fine dei suoi giorni”.
Commentando questa rivelazione, il colonnista del New York Times, nonché precedentemente corrispondente da Mosca e Johannesburg, Bill Keller, è stato ottimista: “La breve appartenenza di Mandela al Partito comunista sudafricano, e la sua alleanza di lungo termine con comunisti più devoti, parla più del suo pragmatismo che della sua ideologia”. Non è chiaro da cosa Keller deduca che l’appartenenza di Mandela sia stata “breve”. La dichiarazione del Partito comunista non specifica se egli rimase un membro della loro organizzazione fino alla sua morte (nonostante l’accurata impostazione della frase suggerisca di no) e, nel caso egli abbandonò il partito, perché lo fece e quando tale abbandono ebbe luogo. Lo stesso Mandela ha ripetutamente negato di aver fatto parte del partito. Durante il suo discorso dal banco degli imputati all’apertura del processo di Rivonia nella Corte Suprema di Pretoria il 24 aprile 1964 Mandela fu categorico: “Giungo ora alla mia posizione. Ho negato di essere comunista, e credo che le circostanze mi obblighino a definire esattamente quale sia il mio credo politico. Mi sono sempre considerato, prima di tutto, un patriota africano”. Si potrebbe ribattere che Mandela e gli altri imputati stessero combattendo per la loro vita, e avrebbero afferrato ogni singola pagliuzza in grado di alleggerire la loro sentenza. Dopotutto, erano accusati di aver commesso una serie di crimini molto gravi, inclusi atti di sabotaggio, violenze pubbliche e attentati con bombe. Alla fine il giudice condannò gli imputati all’ergastolo, piuttosto che alla pena di morte.Ciò che è più difficile da capire è perché, dopo che l’AfricanNational Congress e il Partito comunista furono legalizzati nel 1990 e Mandela fu liberato, la questione non fu chiarita. Ciò che sarebbe bastato sarebbe stata una semplice dichiarazione da parte di entrambe le organizzazioni. Invece fu necessario lo scrupoloso lavoro del giornalista e accademico Stephen Ellis per svelare i collegamenti di Mandela col Partito. Dopo una lunga e approfondita ricerca attraverso gli archivi, egli pubblicò le sue conclusioni nel 2011. Così, quali conclusioni si dovrebbero trarre dalla lealtà di Mandela al Partito comunista? È certamente molto di più di una curiosità storica. Basta considerare alcune delle presenti posizioni dell’ANC per riconoscere l’impronta del Partito comunista su queste. Leggendo il più importante documento programmatico dell’ANC, Strategia e Tattiche, adottato nel 2007, vi troviamo un’analisi della natura della società sudafricana. Essa si riferisce all’origine del paese come “un colonialismo di una tipologia particolare, in cui sia i colonizzati che i colonizzatori convivono in un territorio comune con una vasta popolazione europea stanziale”. Questa formulazione è tratta, quasi parola per parola, dal programma del Partito comunista sudafricano approvato nel 1962. Ovviamente il Sud Africa è tutto tranne che uno stato comunista ortodosso. I suoi splendenti centri commerciali e l’organizzazione delle sue fabbriche e miniere devono molto di più agli Stati Uniti che all’Unione Sovietica. Piuttosto, uno dovrebbe rivolgersi ad un’altra prospettiva per valutare l’impatto reale dei compagni di Mandela a partire dagli anni Quaranta. La Costituzione del 1996 promulgata dall’ANC è basata sulla convinzione di un ideale non-razziale. Eppure essa avrebbe potuto essere differente. Ci sono state occasioni in cui l’ANC ha flirtato con un Nazionalismo Africano che non sarebbe sembrato fuori posto in Zimbabwe. Lo stesso Mandela riconobbe il ruolo del Partito comunista nel distoglierlo da visioni non troppo diverse da quelle di Robert Mugabe. Inizialmente Mandela si oppose ostinatamente ad ogni legame tra l’ANC e i comunisti esattamente per questa ragione, come reso chiaro dal suo discorso sul banco degli imputati nel 1964.  “Entrai nelle file dell’ANC nel 1944, e nei giorni della mia gioventù assunsi la posizione che la politica di ammettere i comunisti nell’ANC, e la stretta co-operazione che esisteva a quel tempo su specifiche questioni fra l’ANC e il Partito comunista, avrebbe condotto a un annacquamento del concetto di Nazionalismo Africano. All’epoca ero membro della Lega Giovanile dell’African National Congress, e facevo parte di un gruppo che spinse per l’espulsione dei comunisti dall’ANC”. Questa trasformazione fu il frutto di un lungo processo iniziato poco dopo l’arrivo di Mandela a Johannesburg nel 1941. Mandela fu assunto da uno studio legale, Witkin, Sidelsky e Eidelmann. Un amico di Mandela, Walter Sisulu, lo aveva presentato al gruppo, e uno dei soci, Lazar Sidelsky, accettò di assumerlo come impiegato mentre compiva i suoi studi per divenire avvocato. Sidelsky non era comunista, ma altri nello staff lo erano. Nel 1943 Mandela si iscrisse all’Università di Witwatersrand, a Johannesburg. Era l’unico nero iscritto a Giurisprudenza, e avrebbe potuto condurre un’esistenza solitaria. Ma presto divenne amico di un gruppo multirazziale di giovani uomini e donne, fra cui Joe Slovo, Ruth First, George Bizos, Ismail Meer, J.N. Singh e Bram Fisher. Tutti erano attivisti di sinistra. Gradualmente l’attitudine di Mandela si addolcì. Come egli disse durante il processo:  “per molti decenni i comunisti furono l’unico gruppo politico del Sud Africa che trattasse gli Africani come esseri umani e loro uguali; essi erano gli unici che accettassero di mangiare con noi, parlare con noi, vivere con noi e lavorare con noi. Essi costituivano l’unico gruppo politico pronto a lottare al fianco degli Africani per l’ottenimento dei diritti politici e di un posto nella società.  Fu l’intervento dei comunisti e di altri gruppi dell’esigua sinistra sudafricana a trasformare non solo Mandela, ma anche il complesso delle istanze dell’ANC.  Senza il loro intervento chi potrebbe essere certo che l’ANC avrebbe comunque adottato nel 1955 la Carta delle Libertà, con la sua dichiarazione iniziale: “Il Sud Africa appartiene a tutti coloro che ci vivono, bianchi e neri”? Non possiamo saperlo, ma mentre piangiamo la morte di Mandela dovremmo ricordare e riconoscere il ruolo che i comunisti svolsero nel prendersi cura e nell’influenzare questo grande uomo.
MARTIN PLAUT