Per gentile concessione di Luigi Medri pubblichiamo “Una storia piccola”, 1982-1983.
…. Ma c’era lì in mezzo gente sveglia, intelligente, acuta. Come il Cinquini, stampatore. Piccolissimo, secco. Deprecava la guerra. Contro la guerra, sottovoce, si pronunciava il Menegatti di Rovigo, con la sua faccia allegra, la riga a sinistra nei capelli. Stampava chiodi ribattini. ……. Poi due lombardi, meccanici provetti, Marzorati e Vergani, e un emiliano, Cocchi: mi bisbigliava all’orecchio una parola nuova: socialismo.……….. Infine Migliorini. Stampava ogive in grosse stampatrici, nella sezione a caldo. C’erano forni di riscaldo, barre rosse, lampeggiava il fuoco. Ci si appartava un poco per parlare, perché c’era un rumore molto alto. E nel frattempo guardavo di sottecchi, là all’inizio, prona alla vasca di tempera dei pezzi, una specie di zingara bassotta, con un gran sedere, calze di lana spessa, nere: la Fantina, sempre pronta a concedersi (era vero?) agli eccitati, lì, alla spiccia, priva di mutande, dal didietro. Ecco, Migliorini, non imprecava al modo di Cinquini, né ironizzava come Menegatti. Non alludeva sottovoce al socialismo come Vergani, Marzorati o Cocchi. Con lui era un discorso a parte, pieno di sottintesi. Provavo, in fondo, qualche soggezione. Sentivo che a contare, più che la mia, era la sua opinione. Il camiciotto aperto, il petto nudo. D’altezza non minore al metro e ottanta, un corpo forte. Il volto era semplice, marcato, con un sorriso fresco di ragazzo. Parlava volentieri.
-“Noi vogliamo- mi colpiva il “noi”- “un po’ più di giustizia, di benessere… Le paghe sono basse. Questa guerra! Tiriamo avanti tutti a borsa nera…. e poi…” Lo interrompevo : – “Che possiamo fare?” Lui mi fissava un po’ in silenzio. E non capivo in quei momenti se riflettesse sulle cose da dire o su di me. Gli sfuggiva un sospiro:
– “Eh, ragioniere, qualche cosa …forse…..”
– “Ma Migliorini, noi contiamo zero. Cosa?”
Non diceva più altro, pure se indovinavo la sua simpatia. Mi batteva una mano sulla spalla. C’era un pensiero che gli stava dentro, comprendevo. Ma da quel punto non andava avanti.
– “Lei è un bravo ragazzo, ragioniere. Non dimentichiamo.”
Mi lusingava, ma mi sentivo un po’ sotto giudizio. E svoltava il discorso su altre cose, e mi spiegava i ritmi della macchina, la produzione, i rischi, il suo mestiere.
L’andavo a trovare molto spesso, nei primi mesi del ’43. M’incuriosiva quel contrasto fra l’apparenza franca, ardita, seria, ed il linguaggio reticente e vago, eppure intensamente suggestivo. Mi lambiccavo, quasi mi stizzivo, al “qualche cosa …forse…..” con cui concludeva i suoi colloqui. A chi alludeva? A cosa? Di me non si fidava? In pochi giorni, eccome, tutto divenne chiaro: in marzo.…. Ahimè, altri fatti bussavano alla porta. – 23 marzo, appunto, di quell’anno. All’Ercole Marelli il primo sciopero, dopo vent’anni di catena. Dove è stabilito “che alle dieci in punto” s’incrocino le braccia sul lavoro….” – E due righe più sotto lo storico ricorda che assieme alla Marelli, a quello sciopero, “si unirono i reparti della Falck: Tubi, Bulloneria, Lamiere, e buona parte …” Quella mattina dunque, pochi minuti prima delle dieci, io registravo a Menegatti la produzione fatta il giorno avanti. Rilevavo alla pesa. “Menegatti, – scherzavo – le dicessi che ha vinto un terno al lotto? Due milioni! No, facciamo cinque!” Si mise una mano nei capelli. Gli brillarono gli occhi, mi sorrise. Per un momento tutti quei milioni se li sentì nel portafoglio.
“O ragioniere! – esplose – vado a cambiarmi subito ed usciamo! A Milano in taxì…con due – mi strizzò un occhio – due di lusso. Ce ne andiamo a Venezia, dieci giorni. Offre la ditta!” – e adesso mi ammiccava: – “Dica un po’ lei, piuttosto! C’è un telegrafo, sa, per certe cose..”
– “Diamine, dico, se l’ho appena vista!”
– “Eh, la biondona, creda… attenti al rischio.”
– “Rischio d’un rivale?”
– “No, no, ben peggio: d’un’impestatura.”
– “Oh, Menegatti, grazie!”
Ed ecco, per riprendere la cronaca, “che alle dieci in punto”, i duecento operai del mio reparto (ma per la verità duecento meno due), incrociano le braccia. Un gran silenzio sotto le campate. Pensai ad una caduta di corrente. Lo sciopero, nemmeno sapevo cosa fosse. Vedevo Cinquini alla mia destra, secco, irrigidito, con la faccia aggrondata, braccia strette al petto. Sulla sinistra, in fondo, dagli uffici vidi affacciarsi volti d’impiegati. Pavidi, muti, ma interrogativi. E Menegatti era sbiancato in volto. Strizzò ancora l’occhio, senza però sorridere stavolta, come a dirmi: aspetti. Così rimasi fermo, lì dov’ero. Mi osservavo d’intorno, mi chiedevo: e adesso?
Passò un minuto, dieci, quanti? Finalmente, a un tratto, s’aprì la porta-ingresso nord dell’officina. Vennero avanti in gruppo, sette-otto, in uniforme. Li accompagnava, pallido e impacciato, il direttore. Il comandante che guidava il gruppo era un bell’uomo sui quaranta, alto, aristocratico. L’avevo già notato alle adunate, spiccava nella piazza fra i notabili. Persino ebbi una sera (il caso!) accesso al suo ufficio seguendo un amico avanguardista. Gli portava un plico. Stava parlando un certo Nozza, quando entrammo. Un tipo bravaccio, rude e tozzo. Commosso; e con un dito indicava la lampada al centro della stanza.
– “La vede, Comandante, quella luce? Quella per me è il fascismo, è Mussolini!”
C’era una piccola corte attorno al tavolo. Lui annuì benevolo. Posò la sigaretta su un piattino, e sorrideva. Ma la sua faccia, qui, era ben diversa, drammatica e grintosa. Il gruppo s’arrestò alla stampatrice di Cinquini.
“Che mai succede?” – chiese il Comandante – “Perché hai smesso? Rimetti in moto, presto. Su, lavora!”
Il piccolo Cinquini non si mosse. Poi parlò a sua volta; con una voce stridula, sconnessa, limata dal timore. Cosa disse? Non raccolsi che rari frammenti di parole: “pane…avanti…fame.”
Lo storico certifica in proposito che le risposte urlate alla MARELLI furono uniformi: – “Non si può più andare avanti in questo modo…Basta le acciughe marce, i fichi secchi…”
Certo, se non uguale, quella di Cinquini fu una protesta analoga; e la risposta degli uomini in divisa non attese. Fu immediata. Rozza ed impulsiva.
Preso l’omino per le spalle, lo spintonarono contro la sua macchina, con un imperativo sottinteso: su, lavora!
Bruciai d’intima furia a questa scena, pelle d’oca improvvisa, e nel contempo un sentimento odioso di sgomento. Sì, in quell’attimo capii d’essere un codardo. E m’era sgradevole comprenderlo. Proprio non ero quello che si espone, l’eroe che si fa sotto per gli inermi. Non ero gary Cooper nel Far West.
Pusillanime, ecco, come troppi. Altro che la gran fifa degli apostoli! Che m’avrebbero fatto, a farmi avanti? Più che un pugno, uno schiaffo…io tacevo. Dentro di me gridavo. Sì, gridavo, ahimè in silenzio: era possibile? Sbattere un uomo come un burattino? – Ma tacevo. Tacevo per paura.
Fragile, inerme, fra torvi energumeni in divisa. Poi m’accorsi che l’omino, solo ed indifeso, no, non era fragile. Minuscolo, sbattuto, ma era un filo di ferro. Si tornò a girare, quasi verde in faccia, balbettando.
E allora accadde un fatto sporco, vergognoso. Quegli uomini ripresero Cinquini tra le zampe. Gli tiravano pugni sulla schiena e schiaffi a mani larghe. Il Comandante li osservava fare, con espressione incredula, stravolta.
– “Sta soffrendo, – mi dissi – ora li ferma.
Mi sbagliavo. Pure, malgrado tutto, ancora oggi mi rimane il dubbio. Vidi i suoi stivali, morbidi, eleganti, muovere un passo avanti. Non volle esser da meno dei suoi uomini? Forse non lo poteva, e lo colpì col piede sulle natiche: quasi tirando un calcio di rigore, una, due volte.
Cinquini alla fine slittò in terra, urtò la stampatrice. Un sorcio intrappolato, immobile, piangeva.
Era un omino, ho detto, il più piccino di tutta la sezione. S’era rimpicciolito in un gomitolo.
Oh, era proprio piccolissimo. Ma in vita sua, potrei giurarlo, lui non fu mai più grande, più ingombrante di quel giorno.
Se ne andarono infine, a mani vuote, lasciandoci col busto di un eroe. Era il mio eroe il piccolo Cinquini. Ma come avremmo amato questo eroe, se avesse ceduto alle minacce? Se dinnanzi a tutti –eravamo pòer lui un grande pubblico – avesse ripreso a lavorare? – Penso, se il caso ti dispone un ruolo nella vita – occhi attenti ti guardano, e attorno senti la tensione crescere – non puoi tirati indietro, perdere la faccia. Hai un copione da portare in fondo, inesorabile. Il Comandante stesso, ora presumo, personalmente era al disopra del suo ruolo. Uomo di mondo, uomo da salotti, un volto fatto per le cerimonie, presenziare, premiare: un giusto accordo fra autorevole e bonario, – cos’avrà narrato quella sera a cena, alle brave figliole, alla “signora”? In quel suo ambiente caldo, raffinato, fra le fruttiere di ceramica, il quadro adatto allo spazio adatto, la domestica anziana, il vecchio suocero?
-“Oggi ho preso a pedate un omettino…è rotolato giù sul pavimento…poi piangeva…”. No, sono convinto. Era legato a un ruolo pure lui; lui come Cinquini: un ruolo opposto; ma sotto i fari del proscenio come l’altro, col cerone in faccia. Il che non toglie che da allora, per più anni, abbia guardato a Cinquini come a un mito. E da quel giorno in poi mutai infine il mio comportamento.
……. Da Migliorini, là in sezione a caldo, ci andai tre giorni dopo. –“Ecco – per dirgli – quel qualcosa…io vorrei starci, insomma.”
Ma non c’era. –“E’ assente.” – E l’indomani appresi ch’era dietro le sbarre a San Vittore.
1943, mese di maggio. Da un caporale inglese (nota: prigionieri prestati alla mia fabbrica) conobbi il saluto comunista. Ma allora non sapevo il senso vero, quel che volesse realmente dire. C’era la novità del braccio (alzò il sinistro), la novità del pugno. E queste cose, senza darvi peso, le notai. Però mi dicevano ben poco.
Da San Vittore, Migliorini era tornato fin da giugno. Tranquillo, riservato, molto attento. L’avevo avvicinato inutilmente. Non parlava. Ma da Spinozzi che sondava Maggi (che a San Vittore gli era stato insieme) trapelò qualcosa. Duri interrogatori per carpire la “rete”, il movimento. Poi con loro in cella venne un comunista. Uno che non mollava, nemmeno a bastonarlo. Il compagno Pollini, si chiamava, un animoso. Troppo acceso per Maggi, intransigente…e a dargli retta! E Migliorini? Lui gli dava retta. Ma per Maggi: “Quello è uno di ferro, o uno sbruffone! O un infiltrato.”
…… Vergani e Marzorati, Cocchi e gli altri, tornarono in reparto a fine luglio.
…… Il 25 luglio. A quattro mesi giusti dallo sciopero di marzo, dalla notte all’alba caddero di schianto il Duce e il suo regime. E il giorno dopo in fabbrica c’era un trambusto enorme.
Una decina d’operai al centro del piazzale, erano intenti a demolire un fascio gigantesco che sormontava un cubo di cemento. Dai viali interni fluivano in frotta dai reparti, con un vociare informe, minaccioso. S’addensavano in massa, come un azzurro lago tormentato. A un tratto, s’aprì nella Bulloneria la porta d’ingresso dell’officina. Tra i vetri nerastri come fango, venne buttato fuori, quasi tirato su da una pozzanghera, un uomo con la tuta lacerata. I capelli ventosi, baffi a spazzola, la faccia era di cenere. Lo spingevano giù dalla scaletta.
-“Porco, schifoso, spia!” Gli aprivano a stento un solco nella folla. Era il Casati (ne rammento il nome). Fu trascinato là dove sorgeva il plinto. Ad ogni passo lo sfiorava un pugno, qualcuno nella ressa provò a sferrargli un calcio nei polpacci. Tutto tremante il corpo, gli occhi folli.
…… Fu issato là dove sorgeva la scure del regime. Vidi la bocca aperta, gli occhi folli.
-“Lui era la spia – chiarì Spinozzi – che aveva fatto i nomi per lo sciopero.”
Sopra a quel cubo di cemento egli rimase esposto come ad una gogna.
…… Come Dio volle venne fatto scendere. Mise i piedi a terra, barcollava. Venne spinto ai cancelli, infine espulso.
Anno ’44, 29 giugno. E quella sera raccontai a Pippo com’era stato ucciso sotto casa Luciano Migliorini. Oggi, a quasi quarant’anni di distanza, posso ridire i fatti molto meglio, con le parole stesse di sua moglie, Rosa Ratti.
Lui era stato in cella, si ricorda?, a San Vittore, con quel tale, fiero e intransigente (che però a Maggi, a fiuto, non finiva –o filava?-), quel pollini insomma, ch’era in effetti un agente del regime. E l’istrione, in un secondo tempo, gli rifilò per buono anche il suo vice. “Piccolo e nero” lo dirà la Rosa: un certo Firma. Un bel lavoro! Ma ascolti il resoconto testuale della moglie:
-“Stiamo cenando quando arriva il Firma…la prima cosa che gli vedo è uno strappo nei calzoni…”
Ed è una serie di sequenze che s’incalzano. Il Firma ha un involto sotto il braccio. Lo porge a Migliorini. E lui lo butta, senza far commenti, nel vano alle sue spalle, fra ottomana e buffet.
-“Dice allora Luciano: Firma, non vuoi mangiare un piatto di minestra insieme a noi? E lui: no, non ho tempo, mangio del pane e del formaggio al Tripoli.”
Luciano, alla risposta si leva dalla tavola. E’ un ospite angustiato, affettuoso, premuroso. Avverte il Firma: -“Aspetta, sei sporco di farina”. Gli pulisce la giacca con la spazzola. Ma, “Ciao, ciao” – fa il Firma – “ora ti aspetto al tripoli, fa presto.” Quando il marito esce, lei presàga, cela il pacco nell’orto, nella pattumiera. Ed ecco: “dopo mezz’ora arrivano i fascisti…”
Circondano il villaggio. –“Vanno da De Candia, ha tre moschetti. Lo trascinano al Tripoli, lo picchiano. Poi vengono da me: “Signora, non faccia perder tempo: hanno portato un pacco, ce lo dia.” -“Quale pacchetto?… E allora si mettono a cercare, ma non trovano niente.”
Poi, d’un tratto, una tremenda raffica di mitra. -“Ed esco in strada e vedo mia cognata: “Hanno ucciso Luciano, torna dentro!” Ma lei impazzita corre al Tripoli. E’ sbarrato. Tutti sono scomparsi. Li avevano montati sopra un camion per assistere…Non c’è più nessuno.
-“Non toccarlo, – sento qualcuno dire – non si può!” – Ma io mi butto su di lui, gli dico: come t’hanno ridotto, tu Luciano, che eri così buono….” Informai Pippo, a sera, soltanto del poco che sapevo: ch’era stato abbattuto come un cane tra le case operaie della Falck, proprio davanti all’osteria del Tripoli. Ma nel racconto della moglie che ho trascritto tutto mi appare nuovo, perché vedo le facce, noto i gesti, odo le voci dei protagonisti. Un episodio, a dirsi, da vangelo laico. Col traditore e la famiglia a tavola, l’ottomana sul fondo, la credenza.
…… -“Tu, Luciano…che eri così buono….!”
No, non è morto Aiace, non un guerriero illustre. Ma l’operaio provetto Migliorini, stampatore a caldo di chiavarde e ogive alla bulloneria Concordia-Falck. Un uomo buono