Cinema. Sully: l’aereo che scampò al 11 settembre

di Mauro Caron
La storia la conosciamo. Nel gennaio del 2009 il pilota di un aereo, appena partito dall’aeroporto di La Guardia, New York, riesce a farlo ammarare miracolosamente sulle gelide acque dell’Hudson, portando in salvo tutti i 155 passeggeri a bordo. Dal momento dell’accertamento dell’avaria all’impatto con l’acqua passano in tutto 208 secondi: meno di tre minuti e mezzo in cui il pilota Sullenberger deve decidere cosa fare e farlo, per salvare se stesso e le persone che a lui, alla sua esperienza, alla sua competenza, al suo sangue freddo, al suo intuito e alla sua capacità e rapidità di decisione sono affidate. Sarà acclamato universalmente come un eroe, e sottoposto a un’indagine ostile per non aver riportato l’aereo sulla pista di un aeroporto.
Ma Sully inizia con un trucco. Della storia che racconta come dicevo sappiamo già l’essenziale, e di sicuro l’esito dell’episodio nodale su cui si impernia tutta la vicenda, che ha avuto risonanza mediatica planetaria. Ma l’inizio del film è spiazzante. Entriamo subito nell’azione centrale, già con il sonoro, prima ancora che sullo schermo le imagini arrivino sullo schermo. Poi le immagini arrivano; ma quello che vediamo non è quello che sappiamo.
Non è sempliecemente un trucco drammaturgico, un inizio ad effetto, un modo per spiazzare lo spettatore che si aspetta già di sapere come-andrà-a-finire, e nemmeno un modo per introdurci nella mente del protagonista agitata dagli incubi e dall’incertezza.
L’aereo di Sully nel prologo non riesce a planare sull’Hudson perché altri aerei, alcuni anni fa, non sono riusciti a salvarsi e a salvare le vite degli altri, finendo driti contro i più alti grattacieli di Manhattan, schiantandovisi contro, esplodendo al loro interno e sbriciandoli al suolo con dentro tutto il loro carico umano e soprattutto – mi si perdoni questo avverbio – il loro immane carico simbolico. L’aereo del prologo non si salva perché l’incubo è ancora vivo negli occhi e nella mente di tutti.
Clint Eastwood, con Sully, sembra offrire a quell’America ferita e che da allora non è più stata la stessa, a quella New York e ai suoi abitanti, un grande risarcimento. Sully mi sembra esattamente questo: un grande risarcimento immaginario (ma basato su un confortante caso reale) all’immaginario ferito e umiliato dalla tragedia dell’11 settembre 2001.
Vedere Sully è, analogamente a quanto succede al protagonista in un paio di scene del film, come risvegliarsi da quell’incubo: gli aerei non sono caduti, un americano, un eroe civile, è riuscito a salvare l’aereo, e tutti i suoi passeggeri – non uno di meno, si sottolinea continuamente nel film – e tutte le persone che da terra (dal fiume, dal cielo) hanno rivisto e presagito di nuovo l’incubo allucinatorio dell’aereo che cade sulla città.
Il film insiste sull’ambientazione newyorkese, rimarcata più volte in maniera letterale nelle scritte che citano la città, sulla cooperazione appassionata degli operatori della centrale di controllo a terra, sulla tempestività e l’efficacia dei soccorsi della guardia costiera, dei pompieri, dei paramedici. In Sully le cose si stavano mettendo male, ma tutto ha funzionato alla perfezione, non una sola vita è stata persa, non un danno è stato arrecato alla città.
Eastwood, fedele alla sua poetica e alla sua visione politica, mette in primo piano la figura di un eroe solitario, l’uomo che distingue ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, che non perde la testa, che fa la cosa giusta anche se non coincide al millimetro con i manuali di istruzione o con i dati degli strumenti di bordo (o, in altri casi, con la legge o il politicamente corretto).
Sully è un cavaliere solitario, con un aereo al posto del cavallo o dell’automobile, è il titolo è tutto per il suo nome, anzi, per il suo abbreviativo; ma come in un gioco prospettico dietro di lui si scopre la figura del suo secondo pilota, e poi del personale di bordo e dei passeggeri, e poi della sua famiglia e delle famiglie dei passeggeri citate nei titoli di coda, e poi dei soccorrittori, dei neworkesi, degli americani, dell’America. E c’è una buona notizia: ce l’hanno fatto. Ne sono usciti vivi.
Con un artificio retorico e antiretorico insieme, Eastwood concentra dunque tutta la luce sul personaggio centrale – con la sua convinzione di aver agito istintivamente per il meglio, e tuttavia con i dubbi terribili istillitatogli dalla commissione d’inchiesta che gli oppone registrazioni di dati strumentali e disumane simulazioni computerizzate – e lascia in ombra tutto il resto, evitando la comoda e facile maniera della caratterizzazione dei personaggi secondari tipica dei disaster movie, e frammentando invece la narrazione, in modo molto convenzionale nei flashback dedicati al passato aviatorio di Sully, ma efficace nel ripercorrere avanti e indietro, tra realtà e incubo, tra verità e simulazione, l’episodio centrale della storia. Bisogna dire che in questo modo però, rimangono molto sfocate anche le motivazioni degli avversari di Sully, rappresentati dai membri della commissione d’inchiesta, dietro i quali non stanno motivazioni burocratiche gratuitamente maligne, come si potrebbe credere guardando superficialmente il film, ma i precisi interessi economici della compagnia aerea che avrebbe preferito riavere il proprio aeromobile su una pista d’atterraggio piuttosto che in mezzo ad un fiume, e delle compagnie assicurative che avrebbero preferito sgravarsi dei propri oneri addossando tutte le responsabilità sull’errore umano di un capro espiatorio.
Perfetta, sottotono (il personaggio parla sempre a labbra strette) eppure autorevole l’interpretazione di Hanks, che si impone su un pur pregevole cast di contorno, in cui lo fiancheggia un ottimo Aaron Eckhart, nel film forse più necessario di Eastwood (un autore, per il quale, lo confesso, nutro una diffidenza controcorrente che esclude solo una manciata di titoli nell’arco di una filmografia molto prolifica) dai tempi del capolavoro di Gran Torino.
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