Addio Gunter Grass, nobel della letteratura
Così si raccontava nell’ultima intervista
SI è spento a Lubecca all’età di 87 anni lo scrittore e drammaturgo tedesco. Aveva vinto il premio nel 1999. Riproponiamo qui il nostro colloquio nel 2009 in occasione dei 20 anni dalla caduta del muro di Berlino. In cui ripercorre la sua carriera e il suo impegno civile
di STEFANO VASTANO
Lo scrittore tedesco Gunter Grass si è spento a Lubecca all’età di 87 anni. Lo ha reso noto la sua casa editrice Steidl.Nel 1999 aveva vinto il Nobel per la letteratura. Per ricordarlo, riproponiamo la sua ultima intervista rilasciata all’Espressonel 2009.
Nessun altro scrittore tedesco si è occupato tanto del rapporto tra storia, biografia e politica come Günter Grass. Del resto, l’ottantaduenne Nobel per la Letteratura è l’autore del più importante romanzo tedesco del dopoguerra, ‘Il tamburo di latta‘, una simbolica resa dei conti con il proprio Paese e di cui si celebra, in questi giorni, il cinquantesimo anniversario della pubblicazione. In Italia quel libro è riproposto da Feltrinelli, mentre Einaudi ha appena mandato in libreria ‘Camera Oscura‘, una specie di diario intimo, dove lo scrittore è raccontato con gli occhi dei figli e dei familiari, mentre in ‘Sbucciando la cipolla‘ Grass qualche anno fa confessava il suo passato nazista. Insomma, vita privata e vita pubblica si sono sempre mescolate nella produzione dello scrittore: peraltro un militante socialdemocratico.
Ecco perché il ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino è un’ottima occasione per riflettere sulla Germania, sui conti col passato e sul ruolo pubblico dello scrittore. “Prima che scrittore sono un cittadino”, precisa Grass, “lo dico perché l’inizio della catastrofe nazista si deve al fatto che in Germania non c’erano abbastanza cittadini disposti a difendere le fondamenta democratiche della Repubblica. Ecco perché è mio diritto e dovere interessarmi di politica. Perché so quanto la democrazia sia una pianta delicata e fragile. Del resto lo dimostra l’esempio del vostro Paese, oggi. Quando penso a Berlusconi, provo vergogna, per voi italiani”.
Parliamo della Germania. Lei era contrario all’unificazione del Paese…
“E sa perché? Perché si è voluto realizzare, a tutti i costi e troppo in fretta, l’unità nazionale, prima della vera unificazione delle due Germanie. Non s’è sentito il bisogno di scrivere una nuova costituzione, cosa che si fa di solito, quando nasce un nuovo Stato. Si è proceduto semplicemente all’annessione dell’ex-Rdt da parte dell’Ovest”.
Vent’anni dopo, è ancora convinto che siano stati gli 82 milioni di tedeschi a sbagliarsi e non lei?
“Anch’io commetto errori. Temevo che Kohl trasformasse la Germania in un Paese centralistico, ma ho sottovalutato la forza intrinseca del nostro federalismo. Però il mio pessimismo era fondato. Kohl ha voluto l’unificazione distribuendo il marco, la nostra valuta di allora all’Est. Pensava di fermare così la fuga di massa verso l’Ovest. Ma non è stato così. Due milioni di tedeschi hanno lasciato l’Est, e l’Est è rimasto un territorio colonizzato dai fratelli ricchi. Il Paese è ancora diviso in due”.
Non può negare che oggi a Lipsia o Dresda si stia meglio che ai tempi del Muro…
“Il punto è che l’Ovest si è appropriato del 90 per cento dei beni nelle cinque regioni dell’Est, e che tranne il nazionalismo a quelli dell’Est non è rimasto nulla in mano. Mai nella storia del dopoguerra s’è verificato un processo così antidemocratico”.
Lei rifiutava l’unità tedesca anche a causa del passato nazista. A 70 anni dalla guerra i tedeschi sono riusciti a domare il passato?
“Le colpe del passato nazista sono diventate parte integrante della nostra identità nazionale. La catastrofe del Terzo Reich è stata così radicale che noi tedeschi non potevamo esimerci dal confrontarci con la nostra disfatta. Voi italiani siete riusciti a trasformarvi nei vincitori morali del conflitto. Noi dovevamo invece fare i conti con Auschwitz. L’accettazione delle colpe ha sortito effetti positivi sulle nuove generazioni di tedeschi”.
Che ruolo avete avuto voi scrittori in questa resa dei conti?
“Nel primo dopoguerra i letterati non volevano sporcare le pagine con le lordure del passato. È stato merito di alcuni scrittori, io fra loro, di aver rotto verso la fine degli anni ’50, con l’ipocrisia dell’era Adenauer. L’establishment diceva ai cittadini: lavorate, pensate al benessere materiale, non al passato. Noi invece abbiamo messo il dito nella piaga del nazismo”.
È ‘Il tamburo di latta’, con il suo protagonista Oskar, uno gnomo di Danzica, che si rifiuta di crescere, il primo romanzo che rievoca nel modo efficace gli incubi del Terzo Reich?
“Col senno di poi possiamo dire che ‘Il tamburo di latta’ e l’intera Trilogia di Danzica (‘Gatto e topo’, ‘Anni di cane’) ha aperto uno squarcio nel mutismo degli anni ’50. La letteratura serve perlomeno a lasciare, come una lumaca silenziosa, delle lunghe tracce nelle coscienze e nei processi sociali. Comunque non ero solo. Con me c’erano i poeti Hans Magnus Enzensberger e Ingeborg Bachmann, insieme al più giovane Uwe Johnson e al più anziano Heinrich Böll. Abbiamo preso di petto il passato nazista e non abbiamo più mollato la presa”.
Sta parlando della letteratura che affronta il passato. E il futuro?
“A volte le profezie degli scrittori si rivelano vere. Le faccio un esempio: l’islandese, Halldór Laxness ha descritto alla perfezione in un suo romanzo (‘La campana islandese’) il collasso economico del suo Paese. Negli anni ’20 Alfred Döblin descrisse in un romanzo il disgelo dei poli terrestri. Spesso la letteratura anticipa gli sviluppi sociali”.
Vede nuovi Grass o nuovi ‘Tamburi di latta’ in giro?
“Vedo giovani autori che hanno più cultura e titoli di noi scrittori del dopoguerra. Non dubito che verranno altri ‘Tamburi’. Al di là della sua valenza simbolica, è un romanzo picaresco, quindi europeo per eccellenza. Boccaccio ha rubato lo stile picaresco agli arabi, questo stile è passato poi in Spagna e con Rabelais in Francia; è giunto infine in Germania. Dalla Dublino di Joyce alla Berlino di Döblin sino alla Danzica del ‘Tamburo di latta’ è sempre un protagonista e una città al centro di questa tradizione epica”.
Di Danzica, sua città, ha raccontato cinquant’anni fa. Ma solo nel 2006 ha rivelato di essere stato soldato di una divisione delle Waffen-SS. Perché ci ha messo oltre 60 anni a scrivere questa storia?
“Perché dovevo diventare vecchio per poter rivivere la mia biografia. Solo ottantenne mi è stato possibile rivedermi ragazzino di 14, 15 anni”.
Fu solo con un tacito silenzio che il 15enne Grass si accostò al nazismo?
“Macché, in ‘Sbucciando la cipolla’ ho descritto la mia situazione di allora come un fallimento rispetto al fascino esercitato dal nazismo su noi ragazzi”.
È stato accusato di ipocrisia.
“È facile col senno di poi giudicare gli errori altrui. Molti scrittori, da Mario Vargas Llosa a Norman Mailer, hanno capito che per descrivere la propria vita servono decenni di maturazione: la memoria che ne abbiamo è proprio come sbucciare, strato dopo strato, una cipolla, un processo doloroso. Eravamo come trasportati da un’utopia radicale di salvezza, di redenzione assoluta della Germania. Solo dopo la guerra ho capito, leggendo Camus, che mai nessun Führer e nessuna utopia può sollevare e di colpo tutta la nostra esistenza: il sasso rotola sempre giù sulle spalle di Sisifo”.
Cinquant’anni anni fa Oskar de ‘Il tamburo di latta’ urlava contro gli orrori del nazismo: c’è ancora bisogno degli strilli di Oskar?
“Sì, la società ha bisogno di una letteratura che si immischi nei discorsi quotidiani, che faccia vedere senza pietà i misfatti dei potenti e mostri ai giovani i limiti delle utopie radicali. C’è sempre bisogno dell’arte che, come Oskar col suo tamburo, svegli le coscienze intorpidite”.