CETA: ecco come le multinazionali otterrebbero gli stessi privilegi del TTIP

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November 9, 2016 – Manlio Masucci

Si scrive Ceta, si legge Ttip: secondo l’ultimo rapporto del Transnational Institute (Tni), l’accordo di libero scambio fra Unione Europea e Canada potrebbe spalancare le porte a circa 42 mila aziende statunitensi con affiliate in Canada, tra cui giganti dell’agroalimentare come Coca Cola, McDonald, Cargill, ConAgra foods. L’81% delle imprese statunitensi attive in Europa presentano infatti i requisiti per essere definite “investitori canadesi”. La clausola Isds/Ics presente nel Ceta permetterebbe dunque a molte aziende statunitensi di citare i governi nazionali presso i tribunali sovranazionali con l’obiettivo di chiedere risarcimenti in caso di regolamentazioni avverse ai loro interessi. Sono le stesse multinazionali, si sottolinea nel dossier, oramai abituate ad utilizzare questo strumento in maniera aggressiva arrivando fino all’inibizione dei legislatori che, proprio per paura di essere citati in giudizio, sono spesso indotti a non introdurre normative invise alle potenti e facoltose multinazionali. Il Ceta garantirebbe dunque diritti speciali agli investitori limitando la possibilità dei governi democraticamente eletti di agire in favore dei propri cittadini. Proprio per protestare contro il Ceta, si è svolta a Roma, in piazza Montecitorio, una manifestazione organizzata dalla Campagna Stop Ttip Italia.

Una protesta a base di pasta biologica italiana, cucinata in loco e servita a tutti i presenti, passanti inclusi. Un’azione simbolica che richiama l’attenzione su uno dei principali rischi legati all’entrata in vigore del Ceta, ovvero il dumping di prodotti alimentari di bassa qualità sui nostri mercati e il conseguente impatto sui lavoratori del settore: “Il Ceta – spiega a Conquiste Monica Di Sisto, portavoce della Campagna Stop Ttip Italia – è un accordo simile al Ttip potenzialmente dannoso per la piccola e media produzione italiana; per i piccoli e medi produttori, che già soffrono del continuo abbassamento dei prezzi di grano e cereali, sarà ancora più dura a causa del massiccio aumento delle importazioni a basso prezzo e a bassa qualità dal Canada”.

Proprio il Canada rappresenta uno dei maggiori fornitori di grano per i pastifici italiani. Una questione di prezzo? Certo, ma anche di qualità considerando che il grano canadese risulta particolarmente ricco di proteine. Eppure, dietro la supposta superiorità del grano canadese si cela un inganno legato alle modalità di essiccazione, non ottenuta in maniera naturale a causa delle condizioni climatiche avverse, ma attraverso l’utilizzo di prodotti chimici dannosi per l’uomo e per l’ambiente: “Già ora il Canada – ci spiega ancora Monica Di Sisto – è un partner importante per l’Ue e molti pastifici italiani stanno già acquistando grano per la pasta perché il grano canadese ha grandi percentuali di proteine; quello che non ci raccontano è pero che l’alta percentuale di proteine è ottenuta spruzzando tonnellate e tonnellate di chimici, in particolare il Round Up della Monsanto, il cui principio attivo è il glifosato, attualmente proibito in Europa; insomma, in Italia non possiamo utilizzare il glifosato nei parchi e nei giardini ma poi ce lo ritroviamo nella nostra pasta”.

Quella della pasta è però solo una delle tante questioni aperte. Il capitolo sulla cooperazione regolatoria del Ceta darebbe infatti agli esportatori agricoli del Canada, il quinto produttore mondiale di organismi geneticamente modificati (Ogm), nuovi strumenti per aprire il mercato europeo ai loro prodotti. Si tratta, in molti casi, di prodotti di bassa qualità, spesso brutte copie di eccellenze italiane: “I consumatori canadesi – si legge nel rapporto – comprano ogni anno 3,6 miliardi di dollari di prodotti che sembrano ai loro occhi e alle loro orecchie italiani, ma non lo sono; nella loro busta della spesa i prodotti davvero italiani valgono 950 milioni appena, eppure solo una ventina (allegati compresi) delle pressoché 1.600 pagine del Ceta riguardano le Indicazioni Geografiche”.

Ma i punti interrogativi legati al Ceta riguardano anche le questioni del lavoro e dei servizi pubblici. Si tratta di argomenti su cui si sono raggiunti accordi generici che non soddisfano le organizzazioni della società civile. Uno dei nodi analizzati dallo studio riguarda la possibilità dei governi nazionali di recedere dagli accordi sui servizi pubblici senza aprire contenziosi con le multinazionali. I servizi pubblici, in quest’ottica, tendono ad essere considerati potenziali mercati, buoni per la commercializzazione: “Il tentativo dell’accordo – si legge nel rapporto – è invertire un paradigma che vede ancora, almeno a livello di principi, l’interesse pubblico pesare più di quello privato; con la cooperazione regolatoria e la corte per gli investimenti, il tentativo è ribaltare la prospettiva anche dal punto di vista strettamente giurisdizionale”.

Ai diritti speciali per le multinazionali non corrispondono inoltre le necessarie garanzie nel capitolo del lavoro dove non risultano presenti disposizioni vincolanti capaci di far rispettare le norme dell’Ilo, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Delle otto convenzioni fondamentali dell’Ilo, si sottolinea nel rapporto, il Canada non ha ratificato la n. 98, sul diritto di contrattazione collettiva, né la 138, sull’età minima per l’assunzione all’impiego. Al pari del Canada, dodici Stati europei non hanno ancora ratificato la convenzione sulla salute e la sicurezza sul lavoro. Uno degli effetti di questa situazione, potrebbe essere quello di agevolare gli imprenditori che intendono spostare i loro investimenti laddove le norme sul lavoro sono meno stringenti.

Il Ceta rappresenta, secondo Monica Di Sisto, un trattato dagli effetti potenzialmente dirompenti sul nostro tessuto economico e sociale: “I vantaggi che le multinazionali otterrebbero attraverso il Ceta – ha concluso la portavoce della Campagna Stop Ttip – sono gli stessi che otterrebbero con il Ttip e per questo dobbiamo alzare la guardia se vogliamo difendere le pmi e i piccoli e medi produttori locali; il fattore negativo è che il Ceta sembra completamente escluso dal dibattito pubblico, come già capitato negli anni passati con il Ttip prima che sindacati, organizzazioni di consumatori e della società civile, comuni cittadini cominciassero a informarsi e a contrastarlo; penso che sia nostra responsabilità – ha concluso la Di Sisto – denunciare il fatto che il Ceta è un cavallo di Troia utilizzato per aumentare i profitti delle multinazionali e che sia nostro dovere combattere contro questo accordo fino al giorno dell’approvazione da parte del parlamento europeo e fino all’eventuale ratificazione dei parlamenti nazionali”.

Fotogiornalismo dal mondo del lavoro – LETTERE DI TRANSITO

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