Camusso a Renzi: «Sul lavoro ora basta con gli slogan»

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Di Bianca Di Giovanni

“Modello tedesco? Sarebbe ora di smetterla con gli slogan e di avviare un discorso ampio, che modifichi gli schemi che abbiamo utilizzato finora, perché il lavoro non può più aspettare”.
Susanna Camusso è appena tornata da un viaggio in Giappone, ed è sorpresa della piega che ha preso il dibattito italiano sull’occupazione. “Cosa vuol dire come la Germania? Se significa universalità delle tutele, salari dignitosi, partecipazione dei lavoratori alle scelte di impresa, professionalizzazione e valorizzazione del lavoro, innovazione, regole contrattuali, riconoscimento reciproco dei ruoli noi ci siamo, siamo pronti da subito a discuterne e a firmare. Se vuol dire lavoro povero e dequalificato – come i mini job – precarizzazione a vita, competizione sul lato dei costi non va bene, ci opporremo. E poi è davvero uno strano dibattito: come si potrebbe coniugare questa idea di lavoro povero e precario con il Jobs Act? La verità è che in questa discussione non si capisce dove si vuole andare, cosa si vuole veramente fare”. E alla fine, nel tourbillon di dichiarazioni, si va a parare sempre lì: l’articolo 18. “Che non è vero che riguarda 3 mila persone – dice il segretario – Questo è un modo di sminuire. Quell’articolo riguarda i diritti fondamentali dei cittadini, e dei lavoratori, diritti che non possono essere soppressi”.

Il premier indica il modello tedesco come modello vincente. Voi non siete d’accordo?
“La prima contraddizione è che il Jobs Act, che nelle prossime settimane sarà in Parlamento, da quando è stato presentato ha mutato più volte faccia e obiettivo. Quando poi si parla di modello tedesco, si lascia tutto nel vago e ci si chiede cosa si voglia veramente intendere. Di cosa si parla? Dei diritti di informazione e di codeterminazione? In quel modello i lavoratori hanno un potere fortissimo, sugli investimenti e sulle scelte aziendali. Si vuol dire che vanno introdotte ulteriori forme di precarietà, questa volta chiamandole mini jobs? Se è così, se si tratta di prendere solo il pezzo che scarica sul lavoro la competizione e i costi, allora meglio lasciar perdere, è un modello che abbiamo già provato e ha fallito. Quando si discute di modelli in astratto senza specificare alcunché, si rischia solo di parlare per slogan. Un modo di fare e di agire che all’Italia non serve. Questo è un Paese che ha legiferato molto sulle regole del lavoro. E’ arrivato il momento di cambiare schema e di cominciare a pensare come creare il lavoro, elaborare un piano serio di investimenti, superare la precarietà, dare stabilità e fiducia alle famiglie”.

Vuol dire che il modello tedesco include altri aspetti?
“Certo. La Germania ha reagito alla crisi con investimenti in ricerca e innovazione, con un modello di istruzione che favorisce l’inserimento al lavoro. Ripeto: non si può prendere un pezzo, riadattarlo e metterlo a casaccio in un altro posto. Così facendo non si rende moderno un sistema, lo si fa solo più farraginoso.

Quel modello si è basato anche sulla moderazione salariale: voi concordate?
“Sì, la moderazione salariale c’è stata, ma faccio notare che era con aumenti contrattuali sempre maggiori dell’inflazione. Gli ultimi dati Istat sulle retribuzioni in Italia, indicano un impoverimento diffuso e costante del fattore lavoro. Questo si dimentica troppo spesso. E comunque mi piacerebbe affrontare una bella discussione sui meccanismi salariali, sugli aumenti di produttività, sugli investimenti”.

Come si affronteranno le decine di situazioni di crisi industriali nei prossimi mesi?
“Questa è la domanda da porci: quale modello di Paese vogliamo e come salviamo interi pezzi di manifattura. Per questo dico che bisogna cambiare schema e smetterla di partire sempre dagli stessi temi già affrontati mille volte in passato. Per di più senza successo”.

Eppure a quanto pare è l’Europa che pretende un intervento sul mercato del lavoro: senza quello niente flessibilità.
“Ecco, è appunto questo lo schema che vorrei superare. Quando i problemi si affrontano con le vecchie ideologie, sia l’Europa a chiederlo, o siano i conservatori nostrani, alla fine si arriva sempre allo stesso punto: a norme che rendono il lavoro più precario. Ma così non si risolve alcunché. Se davvero vogliamo parlare e stare modernamente in Europa, parliamo di tutele universali che in Europa ci sono e in Italia no”.

Sì, ma dicono che in Italia non ci sono perché alcuni sono troppo protetti…
“Ah, davvero? Protetti? E chi sarebbe protetto in un mercato del lavoro che sforna valanghe di disoccupati? Con le regole sul mercato del lavoro create in questi ultimi 20 anni si sono creati plotoni di precari, eppure la competitività è diminuita invece di aumentare, l’economia è in recessione e stiamo preparando un’era di povertà per i nostri figli. Sappiamo bene, ad esempio, che l’occupazione femminile è un elemento fondamentale per aumentare il Pil. Eppure sono davvero pochi a preoccuparsi che per far crescere il numero di donne che lavorano servono tutele universali, come la maternità solo per dirne una. Da 18-20 anni assistiamo a una sistematica deregolamentazione del mercato del lavoro, eppure siamo il Paese meno competitivo. Modernità per me significa allargare le tutele a tutti, indipendentemente dal tipo di contratto che hanno. Universalità non significa toglierle a qualcuno per darle a qualcun altro. Essere al passo con la nostra epoca significa allargare i diritti, pensare ai più deboli, includere chi oggi è escluso. Poi certo bisognerà regolare gli interventi, ma questa è la pratica di ogni buon riformista”.

Il governo punta a riscrivere le regole per aggiornare lo Statuto. Non crede anche lei che quel testo sia legato a una struttura economica che non esiste più?
“Non credo affatto che lo Statuto sia vecchio, per un motivo molto semplice: quel testo affronta il tema della democrazia, delle libertà individuali, dei diritti di cittadinanza. Tutti temi che non hanno a che fare con le politiche economiche, le dimensioni d’impresa, la competitività di sistema. Ne hanno invece molto con la cittadinanza e con la dignità del lavoro. C’è forse chi vuole sostenere che è superato il principio di non discriminazione di un lavoratore per la sua razza, il suo credo religioso, il suo orientamento sessuale? Vogliamo dire che è più moderno controllare a distanza chi lavora, indagare su di lui, impedirgli l’attività sindacale o politica? Sotto questo atteggiamento c’è un’idea di comando e non di collaborazione. C’è l’idea che bisogna contrapporre i lavoratori tra loro. Chiunque dice che lo Statuto è superato deve dire con chiarezza perché, in cosa e come intende modificarlo. Il fatto che in molti luoghi di lavoro non sia applicato, è una ragione in più per rimodularlo in modo da dare tutele a coloro che oggi vivono in una vera e propria giungla lavorativa totalmente privo degli elementari diritti”.

Per la verità Renzi ha detto chiaramente, difendendo l’intervento sugli 80 euro, che il suo governo non farà diventare l’Italia più competitiva colpendo il reddito dei lavoratori.
“Noi abbiamo apprezzato l’intervento sugli 80 euro, tanto che chiediamo di allargarlo. La riteniamo una misura importante dal punto di vista economico e non solo. E’ stata anche una scelta con un forte valore simbolico perché per la prima volta si restituisce qualcosa al lavoro. Detto questo, aggiungo che bisogna fare di più, non ci si può fermare qui, perché oggi in Italia non basta la leva fiscale. Bisogna, ad esempio, rinnovare i contratti a partire dai lavoratori pubblici, è necessario un serio piano di investimenti, una vera politica industriale, bisogna sapere cosa si vuol fare della siderurgia, della chimica, delle telecomunicazioni, dei trasporti, dei servizi, della farmaceutica, della cultura, del riassetto del territorio, dei settori d’avanguardia e delle nuove tecnologie. Il livello di disoccupazione è tale che per superare l’incertezza c’è bisogno di una visione del futuro di questo Paese, c’è bisogno che sia reso esplicito, divulgato e condiviso. E c’è bisogno che a quel progetto concorrano, ognuno per la sua parte, tutte le forze sane del Paese. Per quanto ci riguarda siamo pronti a impegnarci per rendere il nostro Paese moderno e competitivo. Nei nostri interlocutori e in gran parte della politica in realtà non vedo la visione, e neppure l’intenzione di cercarla insieme”.

fonte: l’Unità
http://www.unita.it/economia/camusso-1.586957