Basta con la Sinistra del galleggiamento

BASTA CON LA SINISTRA DEL GALLEGGIAMENTO

Di Niki Vendola – Repubblica 6 ottobre 2022

La sconfitta è secca, amara, pesante. Cambia i connotati civili del Paese, insieme alla sua geografia politica. Archivia l’antifascismo come memoria costituente e collante etico della Repubblica. Rende più vulnerabile il corpo dei diritti civili, minacciando la libertà delle donne e corrodendo il sentimento della laicità. Ci precipita in una terra incognita, lungamente seminata dal qualunquismo, dal populismo sovranista, dal radicalismo identitario.

La sconfitta viene da lontano, si dice giustamente. Anche la vittoria della destra viene da lontano, anzi dal profondo, dalle viscere di una nazione di cui il fascismo è stato “autobiografia”, secondo la celebre definizione di Piero Gobetti. Viene dalla rimozione della storia, dal degrado delle culture politiche, dalla “dittatura del presente” che ha ridotto i partiti in gestori delle emergenze piuttosto che in ingegneri del futuro. Viene dal disperdersi di una memoria collettiva delegata ai musei e alle celebrazioni. Viene dal deserto della partecipazione, che è stato osservato come un fenomeno meteorologico e non come un fatto politico di prim’ordine.

Del sovranismo di strada conosciamo il linguaggio ebbro e marziale, lo stile muscolare e guascone, la confidenza con le leggende celtiche e la diffidenza per il pensiero scientifico. Il fatto è che hanno vinto senza ricorrere a travestimenti o trucchi, lasciando ardere la vecchia fiamma missina, ripulendo qua e là gli eccessi di nostalgia, ma con un’offerta politica deliberatamente ideologica: “Dio Patria e famiglia”. E ora che la grancassa propagandistica si è fatta inno nazionale e agenda di governo, nel cambio di stagione l’Italia rischia di impigliarsi nella trama vischiosa di un nuovo “Stato etico”, cioè di un clerico-nazionalismo aggiornato e corretto, una miscela di secolarizzazione e oscurantismo, di liberismo economico e di polizia morale. Benvenuti nei nuovi anni Venti, non c’è la dittatura alle porte, ma un rischio regressivo c’è, uno scivolamento verso una possibile “cosa nuova”: Orban la chiama “democrazia illiberale”.

Con la destra post-fascista al governo cambia l’ordine del discorso. Cambiano i verbi: sorvegliare e punire, sorvegliare e citofonare, identificare, sgomberare, purificare l’ordine sociale. Dicono che la Costituzione è vecchia, la democrazia parlamentare è vecchia, la cultura è vecchia, la lotta di classe è vecchia. Brutta faccenda la vecchiaia per chi è cresciuto cantando ancora Giovinezza…

Diciamoci la verità: la parola “sinistra” è un suono straniero in tanta parte della periferia sociale d’Italia, non anima la passione operaia, non profuma di popolo, non evoca più alcun tipo di rivoluzione, non è la bandiera che porti nel cuore. Anzi, talvolta quella parola puzza di potere, di compromissione, di resa alle ragioni, e soprattutto ai torti, dell’avversario. La soggezione al paradigma mercatista, la fuga scomposta dalla “questione sociale”, la scomparsa di una agire collettivo nutrito dalla partecipazione militante, la morte delle utopie: tutto questo ha tolto identità, senso e fascino alla sinistra. Il liberismo ne ha bruciato la tavola dei valori, consegnandole il ruolo di controcanto retorico e politicamente innocuo.

Il riformismo dei post-comunisti e dei liberal-laburisti si è arreso dinanzi allo scandalo della povertà e della diseguaglianza, ha finto che il conflitto sociale fosse un anacronismo, ha dismesso come una giacca strappata quel pensiero critico che invocava e invoca la rivolta contro un sistema di ricchezza istituzionalmente protetta e di povertà culturalmente colpevolizzata. Chiedo: non è tempo di aprire una riflessione sul paradosso di quel “riformismo delle contro-riforme” che ha ibernato la sinistra, rendendola complice delle politiche di precarizzazione del mercato del lavoro, di aziendalizzazione del Welfare e della scuola, di privatizzazione dei beni pubblici? Il riformismo è forse un’idea acritica della modernità, un mero codice di adattamento e di soggezione alla signoria del mercato?

La sinistra di governo non è stata il partito della ribellione contro le “strutture di peccato” del vigente modello sociale. Non è stata un’idea di movimento e di trasformazione. È stata piuttosto il pilastro immarcescibile della stabilità di governo, sposando un europeismo di maniera e un atlantismo acritico: e dalla teoria della governabilità alle pratiche deteriori del governismo il passo è breve.

 Ma è la sinistra nella sua pluralità e nel suo insieme che non abita più i territori della fatica e della coscienza, che non evoca più quel “rosso straccio di speranza” di cui parla Pasolini. Siamo tutti chiamati in causa da questa sconfitta.

Per questo attendo il “nuovo inizio” della sinistra con impazienza ma mi sento come il protagonista di Aspettando Godot. Devo crederci? Come si può avere fiducia di un rito, il congresso della catarsi, che si ripete stancamente a ogni giro di boa?

Il Pd si è sempre più ammalato di governismo, di moderatismo, di trasformismo. Non lo dico con l’indice puntato o per civetteria polemica, lo dico perché qui sono i nodi che occorre districare: la sinistra del galleggiamento in un presente senza futuro è condannata al naufragio. Il realismo senza principio di realtà è solo cinismo e resa. “Centro-sinistra” è stato un concetto inerte e muto, in questa campagna elettorale. Nessun orizzonte, nessuna narrazione, tante buone proposte in genere correttive di leggi votate dal partner principale dello stesso centro-sinistra. Ma si ha un’idea precisa della vastità del disincanto del nostro popolo, del rancore per gli effetti sociali della stagione renziana, del dolore per la solitudine politica dei mondi del lavoro e della formazione, della solitudine del Sud?

La sinistra, prigioniera della responsabilità, ha tolto il saluto ai suoi mondi vitali. Non ha visto né sentito né compatito il dolore sociale. La mistica del governo l’ha resa anaffettiva.

Sarebbe dunque un annuncio da batticuore se non fosse così difficile crederci: il Pd che si mette in gioco? Che apre la costituente di un soggetto nuovo? Che sceglie di rischiare il mare aperto? Beh, l’impressione è che un Pd così non esista in natura, che sia una speranza di cartapesta, logorata e falsificata dalla fisiologia reale di un partito balcanizzato e irrisolto, ondivago nelle idee ma ben saldo nelle pratiche di potere, attratto fatalmente al centro, e speculare all’immagine dell’establishment.

Un soggetto ricco di risorse morali e intellettuali, pensato come fusione della sinistra post-comunista con il cattolicesimo democratico, ma mutatosi in qualcosa di simile ad un partito liberal-governista, guidato da una élite moderata in concorso con quei potentati locali che presidiano le reti del consenso, talvolta con metodi che meriterebbero la prosa sferzante di Gaetano Salvemini.

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