Luciana Castellina, Nicola Fratoianni e Nichi Vendola @ LaPresse
Riccardo Chiari
Nel giorno dell’annunciatissimo addio di Arturo Scotto e di «quelli del teatro Vittoria» (Smeriglio, Ferrara, Furfaro, Pizzolante), la risposta della base di Sinistra italiana è chiara: «Avanti, andiamo avanti». Lo chiedono, insistentemente, i delegati e le delegate che di ora in ora salgono sul palco, in una lunga giornata che mette in chiaro quale sia la spinta collettiva che muove il nuovo partito.
«Ci dicono che il nostro è un progetto minoritario e marginale – sintetizza il segretario in pectore Nicola Fratoianni – ci dicono che non possiamo dividerci perché c’è il pericolo della destra, da Trump a Le Pen a quella italiana. Ma credete davvero che la destra vince perché il centrosinistra è diviso? No, la destra vince perché larga parte della sinistra si è resa responsabile di politiche di destra». Dalla cosiddetta «buona scuola» al jobs act, più volte denunciati al pari delle revisioni costituzionali come il pareggio di bilancio, e dell’altro diktat chiamato fiscal compact.
Sarà un caso, ma in un sabato congressuale nel quale la disponibilità all’ascolto e al confronto civile dà la cifra di quanta passione politica si muove nel grande auditorium del Palacongressi riminese, il momento più deteriore arriva nel corso dell’intervento di Arturo Scotto. Non solo per sua responsabilità, perché al di là dell’evitabile replay dell’asserzione «se un soggetto politico non è contendibile…» – accolta da fischi sonori – il saluto è ascoltato con grande compostezza.
Anche quando Scotto, confermando di fatto l’approdo al «campo progressista» di Giuliano Pisapia, anticipa: «Il tema di come ci attrezziamo contro la destra è ancora qui e sarà l’argomento dei prossimi mesi, l’unico antidoto è la ricostruzione di un nuovo centrosinistra».
Ma mentre il deputato napoletano sta ancora parlando, l’entrata in sala di Michele Emiliano – uguale a quella di Apollo Creed in «Rocky» – e la plateale stretta di mano con Scotto che come lui è reduce dal Vittoria, convincono la platea che quando è troppo è troppo. Di qui i fischi e i «buu» dei delegati. Molti dei quali, a bocce ferme, commentano negativamente l’exploit da «politica spettacolo» del governatore pugliese del Pd, che perora un «neo-ulivismo» e dell’ormai ex capogruppo alla camera.
Mentre Alfredo D’Attorre, che pure ha presentato un ordine del giorno perché Sinistra italiana sia cofondatrice di «un campo più largo», completerà comunque il percorso congressuale.
Ben altro clima aveva accompagnato al mattino, fra i tanti saluti come Vincenzo Vita a nome dell’Ars e di Aldo Tortorella, quello di Tomaso Montanari, vicepresidente di Libertà e Giustizia e autore di un intervento applaudito come quello di Maurizio Landini. «Il vostro, il nostro viaggio si propone di percorrere un sentiero di crinale – esordisce lo storico dell’arte – stretto e costeggiato di burroni. Ma è l’unico sentiero che ha qualche possibilità di condurre ad un futuro che non sia l’ossessivo prolungamento di un presente ingiusto e disumano».
A seguire i numeri dei 4,6 milioni di italiani/e in condizioni di indigenza assoluta. Il doppio rispetto a soli dieci anni fa, e con un milione di bambini in povertà assoluta e due milioni in povertà relativa. «È una realtà impressionante. Ma è un fantasma, per la politica italiana. E la scuola che oggi viene progettata, l’oscena “buona scuola”, ha il fine di strappare gli occhi agli italiani del futuro. L’opposto di quello sforzo costante, come deve avere Sinistra italiana, per vedere quello che abbiamo costantemente sotto il naso». Infine un altro passaggio politico: «Vorrei una sinistra capace di comprendere che la crisi della democrazia non è una crisi di governabilità, ma una crisi di rappresentanza. Non accettate un’agenda per cui l’unico modo di fare politica è determinare alleanze, scissioni, fusioni, senza mai chiarire qual è il progetto politico. Qual è la visione. Quale l’idea di Italia, e di sinistra. Certo non sarà il sindaco dell’Expo del cemento a farci uscire dalla globalizzazione neoliberista, è bene saperlo».
Esplicito l’attacco a Pisapia.
Così come fa Alessia Petraglia guardando al referendum costituzionale: «Il 4 dicembre resterà una data storica per la sinistra. Ma attenzione, è già in corso la rimozione della storia. E noi dobbiamo avere il coraggio di dire che, fra chi ha votato Sì e chi ha votato No, c’è un discrimine profondo, un concetto diverso di democrazia».
Mentre Sergio Cofferati avverte: «Sono stanco dei politicismi. Voglio parlare di contenuti, non di liste elettorali. C’è un vuoto che va riempito» sul lavoro e i suoi diritti, così come sull’Unione europea: «Io sono un europeista convinto. L’euro ci ha salvati dal tracollo ma l’Europa va cambiata alla radice, a partire dalla cancellazione del fiscal compact».
In una giornata fittissima, citazione d’obbligo per Laura Boldrini, che ammonisce: «La scissione che a me fa più paura è quella delle persone dalla politica. Mi auguro si capisca la necessità di riacquistare la fiducia delle persone che non vanno più a votare, o votano per protesta». La presidente della Camera, tra l’altro, è l’unica ad evocare un grande convitato di pietra come il M5S.
Mentre Paolo Ferrero, richiamandosi all’esperienza unitaria vincente di Ada Colau a Barcellona (Podemos, Iu, movimenti), propone a Si la possibilità di un cammino analogo anche in Italia.
fonte: Il Manifesto
https://ilmanifesto.it/avanti-popolo-la-base-vuole-il-partito/