Tutto in un blocchetto. L’esercito dei nuovi precari va a ticket: uno su tre ha meno di 25 anni, più della metà è donna. I buoni lavoro danno diritto a una pensione piccolissima, ma non alla malattia, alla disoccupazione e alla maternità. Spesso coprono il nero o gli infortuni. Poletti li vuole tracciare, Damiano limitare, mentre la Cgil con un referendum punta a eliminarli
Antonio Sciotto
La chiamano già Generazione voucher, figlia di quella dei mille euro e nipote degli ormai tramontati cocoprò: ma forse, a guardare bene, anche se i nuovi ticket riguardano una larga fetta di giovani, i più adulti e gli anziani non stanno certo a guardare. Perché il precariato funziona come un enorme sistema di vasi comunicanti, e lungi dal prosciugarsi, adesso tutta l’acqua si è improvvisamente riversata sui «buoni lavoro»: che grazie alle riforme Monti prima (2012) e Renzi poi (2015) sono letteralmente esplosi.
I voucher hanno l’enorme vantaggio (per il datore di lavoro) di non dover neanche più contrattualizzare il dipendente: che, anzi, nei casi di sfruttamento più criminale, si può continuare a retribuire per la gran parte in nero, dandogli solo qualche voucher “di facciata” ogni tanto. Soprattutto quando c’è un’ispezione o quando si infortuna: l’Inail sottolinea infatti come quasi sempre il giorno di infortunio coincida con il primo di pagamento del voucher, mentre in precedenza non appare alcun rapporto tra impresa e lavoratore. Tutte coincidenze?
Ecco quindi date e numeri chiave per tracciare l’identikit di questo nuovo strumento di retribuzione che per tanti ha rimpiazzato il contratto: il voucher nasce nel 2003, è figlio della legge 30 (poi nominata «Biagi»), ma era stato istituito per categorie e ambiti di lavoro molto limitati, tanto che per un buon decennio è rimasto un po’ ai margini. Una prima liberalizzazione si deve al duo Monti-Fornero, che hanno esteso l’uso a tutti i settori, ma la consacrazione definitiva arriva con il governo Renzi che innalza il tetto retributivo annuale a 9.333 euro lordi (7 mila netti).
Se prima, dunque, il voucher era passato per le mani di qualche pensionato o studente per retribuire piccoli «lavoretti» domestici o di giardinaggio, a poco a poco è dilagato tra colf, braccianti e camerieri, per esplodere infine in tutti i settori. Tanto che le agenzie interinali oggi lo inseriscono strutturalmente tra i tipi di retribuzione proposti. Un trend esponenziale: se nel 2008 le persone retribuite con almeno un ticket sono state poco più di 24 mila, nel 2015 sono salite a quasi 1,4 milioni. E se i buoni lavoro venduti sono stati 40,8 milioni nel 2013, sono poi balzati a 69 milioni nel 2014 (+69%) e infine a 114,9 milioni nel 2015 (+66%).
Performance che si ripetono anche a inizio 2016 (+45% nel primo bimestre), ma più di tutto si deve dire che il voucher è “giovane”: un percettore su tre, nel 2015, (dati Inps/ministero del Lavoro – come tutti quelli che citiamo), ha meno di 25 anni (il 31%, più di 400 mila ragazzi e ragazze). E infatti «intrappolata» nei voucher e nei lavori precari si sente Gloria, una venticinquenne di Napoli che ci conferma di essere passata da un ticket all’altro negli ultimi tre anni: «Non solo da Ikea, da cui comunque guadagnavo bene, ma anche i call center mi hanno pagato spesso così. Di positivo c’è certamente il fatto che non devi stare a inseguire l’impresa per farti dare lo stipendio, come capita quando sei in nero. Ti arrivano i buoni in busta a casa, e vai a riscuotere. Di negativo c’è che non so se vedrò mai la pensione, non ho praticamente altri diritti né un’idea di futuro».
I diritti, le tutele. I voucher hanno un valore nominale di 10 euro, in tasca ai lavoratori vanno 7,50 euro. Il resto è composto da: 1,30 euro che vanno alla gestione separata Inps (pensione), 0,70 euro per l’Inail (assicurazione) e 0,50 euro di spese di gestione. Ma, spiega l’istituto di previdenza, pur essendo riconosciuto ai fini della pensione, il voucher «non dà diritto alle prestazioni a sostegno del reddito dell’Inps (disoccupazione, maternità, malattia, assegni familiari ecc.)».
Sembra insomma che si sia individuata una nuova categoria di working poors, che a questo punto risulta ancora più scoperta, non solo per le paghe ma anche e soprattutto sul fronte delle tutele, dei già sofferenti collaboratori e partite Iva.
Oltre che giovani, i “voucheristi” sono soprattutto donne. Il “sorpasso”, spiegano al ministero del Lavoro, è avvenuto nel 2014: «Tra il 2008 e il 2015 la quota di donne tra i percettori è cresciuta in maniera progressiva e piuttosto rapidamente, passando dal 22 % al 52 % del totale».
A questo punto (o meglio, probabilmente già da un po’), non resta che dare sfogo alla fantasia delle imprese, che potranno cercare nelle pieghe del voucher i mezzi per sfruttare meglio. Gloria, ad esempio, la lavoratrice napoletana che abbiamo intervistato, ci ha spiegato che i call center le hanno sempre retribuito con un voucher (7,50 euro) circa due ore di lavoro prestato, e non solo una come prevede la legge.
Ancora, nel 2015 è salita la quota di voucher non riscossi (quindi probabilmente non utilizzati dagli stessi imprenditori) rispetto a quelli venduti: se nel 2014 a fronte dei 69 milioni venduti ne erano stati riscossi quasi 64 milioni, il rapporto l’anno scorso è passato a 115 milioni venduti/88 milioni riscossi. Tutto materiale per il monitoraggio annunciato dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti, che intende «rendere tracciabili» i voucher entro l’estate.
Marco, che con i voucher a Rimini fa almeno tre lavori – fattorino, cameriere e bagnino – ci spiega che in effetti buona parte della sua retribuzione è in nero, «e una piccola la prendo in ticket».
Se il presidente della Commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano (Pd), propone di ritornare alla vecchia formulazione della legge 30, con un uso limitato dei voucher, la Cgil in questi giorni raccoglie le firme per un referendum che ha l’obiettivo di eliminarli.
fonte: Il Manifesto
http://ilmanifesto.info/che-antiquato-il-contratto-oggi-ti-pago-in-voucher/
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