Angela Davis, la foto dello scandalo e la lezione antirazzista

di Angelo Gerosa 541789009 Nel marzo scorso, invitata dall’Università Roma Tre per tenere lezione nell’aula magna della Facoltà di Lettere, ad Angela Davis è stata rinfacciata questa fotografia del 4 agosto 1973 che la ritrae con Margot, moglie di Erich Honecker (l’allora segretario della Sed, il partito comunista della Repubblica democratica tedesca) e Valentina Tereshkova cosmonauta sovietica. La reazione della militante antirazzista statunitense ha colto di sorpresa il “contestatore ” (il  germanista Marino Freschi) e il numeroso pubblico. Davis infatti, senza alcun imbarazzo, ipocrisia o rinuncia, ha rivendicato con orgoglio la storia della sua vita spiegando: “«Non sono più iscritta al partito comunista, ma sono ancora comunista. Non solo perché non ci sono più paesi socialisti dobbiamo pensare che non ci sarà più un mondo socialista in futuro». Parole forti a cui è seguito l’annuncio della morte di Mondo we Langa (all’anagrafe David Rice), membro delle Black Panthers deceduto in carcere dove, nonostante le gravi condizioni di salute e la continua professione di innocenza, era detenuto da quarantaquattro anni con l’accusa di aver ucciso un poliziotto nel 1970. Una sorte simile a quella di Mumia Abu Jamal, ricordato tra gli applausi. Davis ha quindi iniziato la lezione richiamandosi al marxismo nero di Cedric Robinson e affermando che la supremazia bianca deve essere messa in relazione con il capitalismo globale e le sue trasformazioni, che producono povertà in tutto il mondo. Secondo Robinson, il capitalismo è sempre stato un capitalismo basato sul razzismo (racial capitalism), come mostrano le connessioni con il commercio degli schiavi, l’odierna razzializzazione del mercato, ecc.: il razzismo, oggi, è sempre più evidentemente un elemento strutturale non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa, in America Latina, in Medio Oriente ecc. Con l’elezione di Obama alla presidenza degli Usa – come, in precedenza, con quella di Nelson Mandela in Sud Africa – sembrava essere caduta l’ultima barriera del razzismo e sembrava iniziata l’era post-razziale: ma non è stato così perché il razzismo non può essere distrutto da un’elezione, per quanto importante. Anche la lotta per i diritti civili è insufficiente se non si accompagna a una lotta che pretenda i diritti sostanziali (nel lavoro, nelle politiche abitative, nella salute, nell’istruzione) e cerchi di cambiare le strutture della società originatesi nel periodo della schiavitù. Il razzismo, quindi, continua a essere presente negli Stati Uniti, come dimostrano le proteste che si sono succedute in tutto il paese in seguito all’uccisione del giovane Micheal Brown a Ferguson, nel Missouri. Queste mobilitazioni hanno esteso il loro raggio d’azione, diventando una protesta totale contro la violenza razzista dello Stato negli Usa: Ferguson si è così trasformata in un simbolo attraverso cui cercare una soluzione al problema del razzismo, rifiutando le scorciatoie “naif” come quelle che, prima dell’omicidio di Brown, si limitavano a chiedere “giustizia”, cioè la punizione del singolo poliziotto responsabile della singola uccisione di un nero. Davis ha più volte ribadito come il razzismo e la supremazia bianca siano elementi strutturali della società statunitense: essi agiscono attraverso l’imprigionamento di massa degli uomini e delle donne di colore, che costituisce quindi un modo per gestire una certa parte della società. Ci sono oggi più neri in carcere negli Usa di quanti fossero schiavi nel 1850. È cambiato, anche, il modo in cui i movimenti neri percepiscono l’importanza, nella lotta, della solidarietà internazionale. Anche negli Usa, quindi, i movimenti antirazzisti si sono fatti sempre più radicali, comprendono sempre meglio il ruolo coloniale della riproduzione del razzismo nel resto del mondo e sono finalmente promotori della richiesta di giustizia per la Palestina. Si tratta di un movimento in crescita, mentre parallelamente anche il razzismo si sta riproducendo in tutto il mondo. Davis, inoltre, ha anche ribadito che il razzismo, negli Usa come nel resto del mondo, non è solo diretto contro i neri, ma sempre di più anche contro gli immigrati (ad esempio contro i messicani, come dimostrano alcune affermazioni di Donald Trump) e, in particolare, contro gli islamici. Ed è proprio l’islamofobia a giustificare sempre più spesso l’imprigionamento indiscriminato dei migranti. In questo periodo, negli Usa, c’è una nuova opposizione all’incarcerazione di massa soprattutto tra i giovani neri, tra le donne nere e le queer nere. Allo stesso modo, sempre più spesso si chiedono cambiamenti nel sistema dell’istruzione: all’Università del Missouri, gli studenti hanno ottenuto le dimissioni del preside che non aveva voluto condannare pubblicamente alcuni episodi di razzismo nel campus. Questi movimenti riconoscono la necessità di una intersezione delle lotte. Emblematica è l’assenza, in questi movimenti, della tradizionale leadership nera carismatica, riconosciuta e maschile, in nome di una leadership collettiva e prevalentemente femminile: il movimento BLM, ad esempio, è stato fondato da tre donne nere, Patrisse Cullors, Opal Tometi e Alicia Garza. Non si tratta di un movimento leaderless (senza leader), ma di un movimento leader-full (pieno di leader): si è così assistito alla valorizzazione di donne nere, queer, ecc. non per motivi identitari, ma perché ciò aiuta a superare la cornice assimilazionista. In questi movimenti, il femminismo assume un valore molto importante: esiste, infatti, uno stretto legame tra la lotta anticapitalista, la lotta antirazzista e la lotta contro la violenza di genere e per l’uguaglianza di genere. Il concetto di intersezione, sulla cui elaborazione ha contribuito il femminismo, ha un valore molto importante: Davis fa riferimento alla necessità di una intersezione delle lotte, in cui quella contro la violenza di genere si unisca a quella contro la violenza dello Stato, contro gli abusi della polizia e contro i corpi delle donne.  Tutti i nuovi movimenti antirazzisti riconoscono l’importanza del femminismo anticapitalista e antirazzista, come riconoscono il legame del razzismo con lo sviluppo del capitalismo e con l’attacco al lavoro. È significativo che mentre negli anni ’70, quando solo 200mila persone erano imprigionate, un lavoratore su tre era membro di un sindacato, mentre oggi – che ci sono 2,5 milioni di detenuti e 7 milioni sotto libertà vigilata – solo 1 su 10 lo è.

Infine Davis ha ribadito la necessità che la lotta contro il razzismo negli Usa si ponga in una prospettiva globale. Non è possibile, infatti, sconfiggere il razzismo guardandolo solo in una cornice ristretta (quella che ha definito «negro-Us frame»), ma bisogna volgere lo sguardo a tutti i razzismi, compresa l’islamofobia: le lotte contro il capitalismo globale e contro l’ideologia neoliberista devono essere delle lotte contro l’individualismo, altrimenti sono destinate a fallire. Il messaggio è ancora quello che affidò quarantadue anni fa alle pagine conclusive della sua Autobiografia di una rivoluzionaria: «Tutti noi sappiamo che l’unità è l’arma più potente contro il razzismo e la persecuzione politica».