Il sindaco d’Italia non si dimette
Comunali. Roma, Torino, Napoli. Tra sinistra interna e Ala centrista, Palazzo Chigi teme di finire azzoppato prima del «plebiscito» sulle riforme di ottobre. Dalla Gruber Renzi fiuta l’aria ed esclude dimissioni (da segretario) in caso di sconfitta ai ballottaggi. E minaccia la minoranza del partito: userò il lanciafiamme
Andrea Colombo
C’è almeno una parola che, almeno fino a ottobre, Matteo Renzi preferirebbe espungere dal dizionario: «Dimissioni». Il premier gioca in casa, da Lilli Gruber, e chiarisce subito quale interpretazione si debba dare dei ballottaggi prossimi venturi: «Se il Pd perde a Roma e Milano, assolutamente non mi dimetto. Ho sempre detto che alle amministrative si sceglie il sindaco».
Poi c’è Torino, dove nonostante il vantaggio iniziale i bookmaker continuano a dare Appendino in piena corsa, e lo stato maggiore del Nazareno concorda: «Tutti i ballottaggi sono 1X2. Ma credo che l’esperienza e la competenza di Fassino possano essere un punto forte».
E comunque: «Non condivido la lettura per cui l’M5S ha vinto queste elezioni».
Quanto al referendum-fine-di-mondo, quello di ottobre, il segretario del Pd è perentorio: «Queste elezioni non cambiano niente». In realtà, a sentirlo, sembra che l’unica cosa sulla quale il voto nelle città più importanti d’Italia sia destinato a incidere sono le Olimpiadi 2024 a Roma: «Se vince la Raggi ho l’impressione che salterebbero».
È un po’ ossessiva questa insistenza del premier su un tema al quale gli elettori romani sembrano in realtà ben poco interessati, dovendo fare gare quasi olimpiche quotidiane per svernare. Ma il mistero è facilmente risolto: le pressioni di Malagò, e dietro di lui di tutta l’area di potere del cemento a Roma infuriano. E tanto più lo faranno se davvero Virginia Raggi confermerà la scelta di Paolo Berdini come assessore all’Urbanistica: un nome meno gradito, tra i palazzinari capitolini, è quasi impossibile trovarlo.
Tra le righe dice molto questa intervista in cui Matteo Renzi, forse per la prima volta dall’ascesa al vertice del Pd, appare apertamente in difficoltà. Perché in politica nominare una cosa, sia pure solo per smentirla o negarla, significa riconoscere che è in campo, ammetterne la possibilità.
Renzi sa perfettamente che se dovesse perdere nelle città principali le sue dimissioni, non da premier ma da segretario del Pd, sarebbero di fatto un’eventualità del tutto realistica.
Veltroni si dimise per molto meno. Per questo mette le mani avanti e per questo riattizza una polemica feroce con la minoranza («dopo il voto userò il lanciafiamme») e direttamente con Bersani: «Sono ammirato dalle sue metafore: confesso di non capirle. Penso che il Pd sia il primo partito senza ombra di discussione. Rispetto chi da molti anni e con nota coerenza dice che nel Pd va tutto male, ma non è così».
Significativo anche l’annuncio, buttato lì come per caso, che non parteciperà quasi certamente a iniziative elettorali per i ballottaggi. Non è un particolare. Che il segretario di un partito presente in tutti i ballottaggi diserti la campagna elettorale tutto è tranne che ovvio.
La latitanza ha un doppio significato: da un lato Renzi si è reso conto che la sua presenza ai candidati fa molto più male che bene, dall’altro meno compare più gli sarà facile, in caso di micidiale batosta, fingere che la cosa non lo riguardi.
Poi c’è il caso Verdini.
Napoli ha rivelato anche ai più ciechi quanto il sodalizio con l’amicone fiorentino faccia danno al Pd. Renzi reagisce come al solito: negando l’evidenza. «Il tema riempie i talk show da un anno ma non esiste alleanze con Verdini né in Italia né nei comuni. C’erano diverse alleanze in qualche comune».
Insomma, problemini di quella Napoli che tanto sta per essere commissariata e dunque neppure vale la pena di parlarne. In realtà i verdiniani si accingono a votare una nuova fiducia sulle banche, ma il premier ha già spiegato che si tratta solo di alleanze d’aula. Come se appunto fosse robetta.
I verdiniani quell’uscita l’hanno presa in realtà malissimo, anche se Denis in persona, alla riunione dei gruppi di ieri, ha provato a rassicurare: «Tutto resta uguale. Smettiamo di fare tante dichiarazioni, please». Parole che non tranquillizzano affatto la truppa mercenaria, tanto che Bondi il Poeta e la consorte Repetto si accingerebbero a lasciare il gruppo alato per tornarsene al Misto. Anime in pena.
La spina non è il presente, dove in effetti solo di «alleanze d’aula» si tratta, ma il futuro. Perché i verdiniani qualche prebenda dopo il referendum se l’aspettavano e a maggior ragione sono già in fermento pensando alle prossime elezioni.
Renzi però deve chiudere le porte. Il prezzo sarebbe troppo salato: «Sono sostenitore dell’Italicum, che prevede il premio alla lista e non cambierà. Al ballottaggio con quella legge andrebbero il Pd e Fi». Previsione un tantinello azzardata ma anche in questo caso va forse letta tra le righe: agli amici di Ala, ma anche di mezza Ncd, il premier fa sapere che, sbrigata la consegna di reggere il suo governo, sarà il caso che se ne tornino a casa, a rafforzare il partito azzurro.
La gratitudine, si sa, non è mai stata il suo forte.
fonte: il Manifesto
http://ilmanifesto.info/il-sindaco-ditalia-non-si-dimette/