Addio a Francesco Rosi, il regista che raccontò il malaffare italiano
Il regista e sceneggiatore napoletano aveva 92 anni. Fu uno degli autori più importanti del Dopoguerra. Raccontò i mutamenti della nostra società e diede vita, con uno suo stile unico e asciutto, al primo cinema d’inchiesta. Lavorò anche a fianco di Luchino Visconti per “La terra trema” (1948) e “Senso” (1953) e trasformò Gian Maria Volonté in una stella
A 92 anni è scomparso un altro dei nostri grandi autori cinematografici: Francesco Rosi, nato a Napoli il 15 novembre 1922, figlio del direttore di un’agenzia marittima, è morto a Roma, dove si era trasferito diversi anni fa dopo aver trascorso la giovinezza nella sua città. Sposato con Giancarla Mandelli, sorella della stilista Krizia, lascia una figlia, l’attrice Carolina Rosi. La notizia è stata anticipata dal sito de Il Mattino.
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Dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel 1946, Rosi viene assunto da Ettore Giannini come assistente teatrale nello spettacolo ‘O voto di Salvatore Di Giacomo: da lì collaborerà con altri teatri, come aiuto regista, dove otterrà anche piccole parti come attore. Fin da bambino è attratto dal cinema: a tre anni vince un concorso fotografico indetto da una casa di produzione americana che cercava bambini somiglianti a Jackie Coogan, il bimbo protagonista de Il monello di Chaplin.
Negli anni successivi lavorerà a fianco di Luchino Visconti per La terra trema (1948) e Senso (1953), con Aida Valli e, dopo aver lavorato sceneggiato Bellissima, del 1951, con Anna Magnani, e il successivo Processo alla città, del 1952, comincerà a diventare sempre più indipendente: dopo le pellicole melodrammatiche (Tormento, del 1950, con Amedeo Nazzari) arrivano le collaborazioni a opere più importanti, come I vinti (1953), di Michelangelo Antonioni, e Proibito (1954), di Mario Monicelli. Due anni più tardi, nel 1956, sarà coregista, insieme Vittorio Gassman, di Kean – Genio e sregolatezza. Il 1958 segnerà la sua completa emancipazione: La sfida è il primo lungometraggio a portare la sua firma, mentre l’anno successivo si troverà a dirigere uno dei grandi attori italiani: Alberto Sordi. I magliari, del 1959, racconta la storia di un immigrato che, dalla Germania all’Italia, si troverà faccia a faccia con la camorra.
LA VIDEOINTERVISTA: “IL MIO AMICO TONINO GUERRA”
Gli anni Sessanta danno inizio al filone cinematografico d’inchiesta: Rosi è interessato all’evoluzione della società italiana, nel bene e soprattutto nel male. Questa volta dalla sua Napoli i riflettori li punta sulla Sicilia. Nel suo capolavoro Salvatore Giuliano, del 1962, racconta la vita del bandito utilizzando una tecinica innovativa e molto efficace, fatta di flashback non in ordine cronologico. Arrivano i primi grandi riconoscimenti, dopo gli applausi e la stima dei grandi registi della sua epoca: prima l’Orso d’Argento al Festival di Berlino e poi il Nastro d’Argento come miglior regista, statuetta che riceve ex aequo con Nanni Loy.
A COLLOQUIO CON ROBERTO SAVIANO: LE MANI SULLA CITTÀ
Un anno dopo Rosi lavorerà al suo secondo capolavoro: sceglie l’enorme Rod Steiger per interpretare il costruttore edile Eduardo Nottola in Le mani sulla città, un’incursione più reale della realtà nell’Italia del boom economico e dei palazzinari. Il film torna a raccontare la sua Napoli, lo sfruttamento edilizio, la collusione tra malavita e Stato. Sarà un colpo allo stomaco per il cinema italiano: per la sua tragica bellezza, la pellicola otterrà il Leone d’Oro al Festival di Venezia e due candidature ai Nastri d’Argento come miglior regista e miglior soggetto, scritto insieme a Raffaele La Capria. A quel punto Rosi entrerà a pieno titolo tra i grandi narratori italiani, riconoscimento che culminerà con un David di Donatello nel 1965, ricevuto insieme a Vittorio De Sica, come migliore regista.
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fonte: la Repubblica