27 aprile 1953: Harry Belafonte registra “Matilda”

Il 27 aprile 1953 Harry Belafonte si chiude negli studi della casa discografica RCA-Victor per registrare Matilda, uno dei brani più significativi della sua produzione. Fin dalle prime note questa solare e orecchiabile canzone a ritmo di calypso sembra scorrere via liscia e priva di segreti lasciando immaginare una registrazione senza particolari problemi. È soltanto apparenza. Harry Belafonte, che ha già alle spalle una lunga gavetta nei locali del Greenwich Village non si lascia fuorviare dalla tranquillità un po’ superficiale degli strumentisti di turno in quel giorno. Non è un novellino. Nonostante la giovane età da tempo scruta i segreti delle musiche e dei ritmi della tradizione popolare e dal 1951 i concerti che tiene con i fedeli chitarristi Millard Thomas e Craig Work al “Village Vanguard” di New York sono diventati un appuntamento di culto per gli intellettuali e i giovani della città. Per questa ragione sa molto bene che Matilda è una brutta bestia da domare e che la trappola si nasconde proprio nella sua ripetitività. Se non si riesce a dare la giusta carica all’esecuzione la conseguenza inevitabile per chi ascolta non è quella di essere catturato dalla suggestione un po’ ipnotica del ritmo costante, ma è la noia. Harry spiega agli strumentisti che i ritmi delle tradizioni popolari, soprattutto di quella caraibica alla quale attinge, nascono per essere cantati, suonati, vissuti, ballati e non per essere ascoltati dai solchi di un oggetto impersonale come un disco. Se non li si interpreta nel modo giusto perdono in grinta e in significato. Accade così che quella che sembrava destinata a essere una seduta di registrazione tranquilla e senza scosse diventi una lunga giornata di lavoro, preda della quasi maniacale vocazione perfezionista di Belafonte. Il risultato è un brano in cui le variazioni sono infinite, a partire dai passaggi in cui viene ripetuto tre volte il nome “Matilda”. Ogni ripetizione non è mai uguale alla precedente. Tre sono le variazioni fondamentali. Nella prima Belafonte canta tranquillamente in battere, nella seconda scivola sulla prima vocale come se la parola avesse due “a” (Ma-atilda) e sulla successiva fa una pausa, quasi cantasse mentalmente una sillaba prima di pronunciare la parola Matilda. A queste varianti aggiunge o sostituisce altre personalissime correzioni sul tema. Il risultato è sorprendente e il brano segna l’inizio del successo di quel ragazzone figlio di giamaicani nato ad Harlem negli anni della Grande Depressione. La vita fino a quel momento non gli ha regalato nulla. Cresciuto ai margini dell’opulenta società statunitense a otto anni ha seguito i genitori nel ritorno disperato in Giamaica, la terra dei suoi antenati, per sfuggire alla morsa della crisi e della miseria. Ci resta per cinque anni prima di tornare nuovamente negli States. La musica, i colori, ma anche le condizioni di arretratezza della sua gente, gli resteranno dentro per sempre. I ritmi della terra dei suoi avi e, più in generale, dei Caraibi grazie a lui fanno il giro del mondo e brani come Matilda, Jamaica farewell o Banana boat song (Day-o) lo portano al vertice delle classifiche dei dischi più venduti ed entrano nel repertorio delle grandi orchestre. Gli storici della musica pop sostengono che proprio il boom di Harry Belafonte e della sua musica, insieme a quello del folk americano propiziato dal Kingston Trio, abbia posto le basi per la diffusione di massa del folk revival che negli anni Sessanta ha fatto da culla ad artisti come Bob Dylan e Joan Baez. L’uomo non si dimenticherà le sue origini e utilizzerà il suo successo per sostenere la causa dei diritti civili, della giustizia sociale e della lotta al razzismo. Proprio negli anni Cinquanta, all’apice della popolarità dopo aver venduto più di un milione di copie dell’album Calypso, annuncia la sua intenzione di non esibirsi più negli stati e nelle città del “profondo Sud” degli Stati Uniti colpevoli di mantenere in vigore disposizioni, regolamenti, norme punitive o segregazioniste nei confronti della comunità afroamericana. Organizza marce, sit-in, firma documenti, si impegna in prima persona e a chi tenta di convincerlo a moderare un po’ i toni racconta la sua vita di giovane di colore nato nel ghetto nero di Harlem da genitori giamaicani. «Le parole, amico mio, lasciano il tempo che trovano. Quando hai vissuto a contatto diretto con le frustrazioni e la miseria della gente che ha il tuo stesso colore di pelle, non puoi pensare che la tua carriera venga prima di tutto». Anche durante i concerti va giù duro. «Tutti i richiami alla democrazia rischiano di restare chiacchiere vuote perché un paese in cui esistono palesi casi di segregazione razziale non è un paese libero e neppure democratico». Il suo impegno artistico è in linea con quello sociale e civile. Vola alto, al di sopra delle nuvole della produzione di tendenza e delle regole consolidate, facendo conoscere al mondo intero i ritmi, i suoni e i colori nati dalla contaminazione tra il folklore caraibico e la tradizione nera dei canti di lavoro degli schiavi.

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