Allora avevo 10 anni, per raccontare quel giorno e far comprendere quella situazione è necessario che faccia uno stringato elenco di quel che ho vissuto prima.
Nel 1941 sono a Milano. Mussolini aveva dichiarato la guerra. Non si trova più ninte da mangiare. Denutrito arrischiavo di ammalarmi di Tbc, mi mandano in preventorio sul lago maggiore. Poi torno a Milano dove, nel febbraio del 43 anche la casa dove abitavo è incendiata dalle bombe. La mia famiglia sfolla a Rovigo in casa di mio nonno . Sono di nuovo a rischio Tbc per denutrizione, nuovo ricovero in preventorio ad Asiago dove l’8 settembre viene a prendermi mio padre che mi riporta a Rovigo, lui torna a Milano perché al lavoro militarizzato all’Alfa Romeo. A Rovigo abitavo vicino alla sinagoga in una casa divesa a metà tra noi e il rabbino con l sua numerosa famiglia. Arrivano i tedeschi e irrompono in casa per arrestare gli ebrei che però erano in silenzio fuggiti nella notte. Purtroppo sono stati presi e deportati. Quasi nessuno di loro, compreso i bambini miei amici, è sopravvissuto ai campi di sterminio.
I bombardamenti arrivano anche a Rovigo, cittadina vicinissima ai ponti sul Po e sull’Adige. Scappiamo anche da lì e andiamo nella casa dei fratelli di mia madre, in mezzo alla campagna, una minuscola borgata a ridosso d’argine di uno dei tanti canali del Polesine. Nei primi mesi del 1945 i tedeschi arrivano anche da quelle parti.e il comandante di quelle truppe si installa in casa nostra e requisisce per se proprio la camera dove dormivo io insieme a mia zia e alcuni cuginetti.
Intorno alla metà di aprile del 1945 , da casa nostra si capiva benissimo che i tedeschi erano in rotta .
Ricordo che sentivo gli adulti parlare di gente che aveva visto i tedeschi passare il Po con ogni inverosimile mezzo di fortuna e sentito che temevano che il territorio tra il Po e l’Adige diventasse la loro tomba.
I tedeschi avevano cominciato a razziare tutto quel che potevano: farina, frumento, maiali, galline, carretti asini, biciclette. Si portavano via tutto.
La gente stava ferma e muta per timore di rappresaglie, ma la rabbia si tramutava in odio.
Nel tardo pomeriggio del ventiquattro aprile 1945 il motociclista col sidecar , un porta ordini del comandante, era arrivato a casa nostra prima del solito.
Salì di corsa la scala di legno che portava alla camera del comandante al primo piano.
Io ero con mia madre, mia nonna e poche altre persone addette a preparare la cena, nella grande cucina proprio sotto la camera dei tedeschi.
La soletta era fatta da semplici tavole di abete sostenute dalle travi di legno.
Ricordo che sentimmo parlottare in tedesco. Poi un fare trafelato nel silenzio delle voci.
Dopo pochi istanti, con addosso anche il pastrano e portandosi diverse borse di cuoio piene di documenti, l’ alto ufficiale dell’esercito germanico, un uomo ancor giovane, apparse nella cucina.
Indugiò un momento come in dubbio se sedersi a tavola dove era già “imminestrata” una zuppa di pollo fumante, (le donne erano costrette a preparargli la cena) ma subito rinunciò e si rivolse a mia madre con il suo discreto italiano e concluse dicendo, alzando un poco la voce, ma in tono di commiserazione: “ povera Italia”.
E subito affrettò il passo seguito dai due sottoposti.
Balzarono sul sidecar che rombando partì a razzo sollevando la polvere della strada.
Il comandante tedesco scappava in tutta furia .
La motocicletta non aveva ancora percorso i duecento metri per arrivare allo stradone e noi avevamo già capito il perché di quella fuga precipitosa.
Proprio in quel momento udimmo uno sibilo sempre più intenso fino a trasformarsi in un ululato agghiacciante per terminare con uno scoppio fragoroso.
La prima granata, che tentava di colpire i tre ponti, si era abbattuta a lato dello stradone.
Un istante dopo noi che eravamo corsi in strada vedemmo il sidecar attraversare i ponti a tutta velocità.
Il cannoneggiamento continuò ininterrotto, regolare,straziante.
I miei zii saltati fuori da chissà dove dissero : nella trincea no, ma via di corsa sull’argine alto e stretto che un camion non ci passava, dalla parte opposta dei ponti e dalle case , a una distanza di sicurezza.
Ho interpellato molte delle persone che erano con me quella notte del 24 aprile 1945. Nessuno ha dimenticato nulla.
Ricordo che i consigli degli zii Armando e Bepe erano recepiti come fossero ordini precisi, ai quali tutti ci sentivamo in dovere di attenerci scrupolosamente.
Adulti e ragazzini, senza perdere un attimo di tempo, abbiamo preso tutto quello che poteva servire per ripararsi dal freddo della notte. Ogni donna valida: un bambino per mano, i più piccoli in braccio. Mio zio Armando aveva preso un badile e stava di retroguardia. Mio zio Bepe in testa a fare da guida. Mio fratello Luciano aiutava la zia Caterina che faceva fatica a camminare a causa di una gamba colpita dalla poliomelite. E via, quasi di corsa, sulla stretta passerella , un tronco squadrato messo a fare da ponte per attraversare la fossetta e arrampicarsi sull’argine alto del “Conduto”.
Avanti cammina, nella sera ormai quasi buia, in silenzio sul terreno sconnesso dalle ruote dei carretti, nell’erba alta . Nelle orecchie gli ululati degli obici che solo il rumore ti faceva rabbrividire. Avanti cammina, oltre la casa di barba Vincenzo, avanti cammina oltre la casa della Marcella e di Toni. Avanti cammina oltre le case dei Berneccoli. Sempre assordati dall’ululato agghiacciante delle granate. Avanti cammina arrancanti, affannati.
Senza una parola, senza un gemito: Erano poche centinaia di metri, pareva che si camminasse da una eternità. Raggiunta e oltrepassata la curva del canale detta del “noo”, mio zio Bepe si fermò e tutta la fila dietro si fermò. Armando passò davanti col badile, scese la scarpata dell’argine e a un paio di metri dal pelo dell’acqua iniziò a scavare una tacca , un gradino abbastanza largo da fare da sedile e da farci sdraiare i bambini, sopra uno strato di trapunte e coperte.
Ci siamo sistemati su quella tacca nella scarpata dell’argine e subito iniziò un parlottare consolatorio reciproco, qualche nenia sommessa per far dormire i più piccoli.
La luna adesso rischiarava l’aria e si specchiava nelle acque chiare e lente del canale che in quel punto era poco profondo ma alquanto largo.
Il cannoneggiamento continuava inesorabile. Sentivamo il “pamm” sordo, lontano, ininterrotto dei colpi di partenza e, a intervalli regolari e brevi, il lungo tremendo urlo degli obici che penetravano l’aria nella loro traiettoria e poi il fragore secco dello scoppio, al loro impatto al suolo dalla parte dei tre ponti.
Altri obici ci sorpassavano più alti con quell’urlo ancora più straziante e andavano a cercare altri ponti su altri canali o convogli tedeschi sulla “strada nuova”.
Gli zii, loro malgrado pratici di guerra, ci avevano rassicurato: quando li sentivamo così voleva dire che gli obici non ci sarebbero cascati sulla testa.
Ben presto la sommità di quell’argine che si inoltrava nella campagna inabitata, era diventata la via di fuga per molti militari tedeschi.
Quando arrivavano alla curva, oltre la quale avevamo improvvisato il nostro rifugio , noi vedevamo le loro sagome avanzare circospette come di chi ha timore o paura di qualche improvviso sconosciuto ostacolo o di qualche possibile imboscata. Ma con il passo lesto di chi ha una grande fretta.
E i tedeschi avevano fretta di lasciarsi alle spalle quei luoghi che avevano sentito sempre ostili, per riuscire a passare l’Adige e poi correre verso l’Austria … la Germania. Verso casa. Avevano veramente paura di non trovare scampo.
I tedeschi avevano abbandonato le loro armi pesanti i loro carriaggi motorizzati e fuggivano a piedi, che quella strada sull’argine non permetteva altro, in piccoli gruppi , tre, cinque soldati, raramente superavano questo numero.
Passavano guardinghi e non potevano non vedere quel mucchio di persone aggrovigliato nelle coperte, sulla riva del canale. E come passavano dicevano in italiano con tono compassionevole: -povera Italia – .
Sembrava una parola d’ordine, un lasciapassare “povera Italia”: E andavano via senza altro aggiungere.
Poi transitò un altro gruppetto : -povera Italia – dissero, quasi in coro. Mio zio Armando rispose con lo stesso tono: – povera Germania –
Quelli si fermarono e noi abbiamo avuto paura, ma con quel poco italiano che conoscevano, ci spiegarono che avevano abbandonato un grosso carretto e un cavallo.
Anzi, si fecero intendere accompagnando le poche parole con i gesti, il carretto si era rovesciato sull’argine troppo stretto di un altro canale (avevamo capito che si trattava del “Branco”, un canale parallelo al “Conduto” che scorreva poche centinaia di metri più a sud ).
Dicevano che sul carretto c’erano molte cose e che il cavallo lo avevano lasciato libero . Poi chiesero dove avrebbero trovato un ponte per passare sull’altra riva. Avuta la risposta si allontanarono subito.
Non era ancora l’alba.
Il cannoneggiamento aveva diminuito d’intensità. Gli obbiettivi mirati erano più a nord.
Sul nostro argine di soldati tedeschi non ne passavano più .
Passò un uomo sulla riva opposta.
Come uno che vagava senza sapere dove, stordito.
Gli parlò mio zio Bepe, in dialetto naturalmente: – Lei, sulla riva … Dove va … Cosa fa … –
Non era una domanda era un richiamo. Con tono buono, amichevole ma fermo.
L’ uomo prima si fermò, poi si scosse come per ridestarsi da uno stato di trance e si girò muto verso di noi.
Stette così un po’ , come si fosse svegliato all’improvviso e cercasse di raccapezzarsi.
Mio zio disse : – Chi elo lù – e subito aggiunse – stalo ben ?-
Questa era una domanda dal tono preoccupato.
La risposta tardò un poco.
– Si. Si. Sto ben. Me ciamo ………e disse un nome che non ricordo.
Tra i parenti qualcuno parve riconoscerlo e di qua e di là del canale passò un breve scambio di domande e risposte per confermare l’ identità di quell’uomo.
Poi lo convinsero a spogliarsi e guadare il canale che lo avrebbero asciugato e riscaldato con le coperte di cui disponevamo.
Finalmente sentendosi tra persone amiche l’ uomo ancora scosso dai brividi che non erano più di freddo ma di raccapriccio, raccontò della strage, della carneficina dalla quale era scampato qualche ora prima.
A Villadose , un paese confinante sulla strada per Adria, i tedeschi aiutati da alcuni fascisti avevano rastrellato tutti gli uomini che erano riusciti a trovare. Li avevano portati contro il muro del cimitero e li fucilarono tutti.
Persone incolpevoli, strappate alla vita, inutilmente freddamente uccisi.
Unico motivo : la folle voglia di rappresaglia di un reparto tedesco in ritirata. O solo la logica assassina di un qualche ufficiale rabbioso per l’evidente sconfitta.
Un ammasso di corpi uno sopra l’ altro, insanguinati. Lui non sa per quale miracolo era rimasto illeso e così, come un sonnambulo, senza rendersi conto di quel che faceva , si era incamminato sull’argine sinistro del “ Conduto” e, senza sapere come, era arrivato fino lì e non sapeva cos’altro dire.
Alle domande allarmate di mia zia Caneta che era originaria di Villadose e aveva in quel paese tutti i suoi parenti, se conoscesse qualcuno di quei morti ammazzati, l’ uomo non seppe o non volle rispondere.
Così tornò un silenzio tetro e in quel silenzio i miei zii si resero conto che il cannoneggiamento era finito.
Il giorno, quel 25 aprile 1945, incominciava a schiarirsi .
Allora i grandi ritennero che sarebbe stato meglio ritornare alla casa per far riposare i bambini e le persone spossate nel fisico e nello spirito .
Così nel silenzio della stanchezza, in una luce ancora livida, abbiamo ripercorso quella strada sull’argine alto e siamo rientrati a casa buttandoci sui nostri giacigli.
Io ricordo che mi sono addormentato subito, di colpo.
Il sonno è stato breve.
Quella mattina del 25 aprile 1945 circolavano voci che una squadra di fascisti armati andava in giro ad ammazzare la gente, per fare vendette e rappresaglie. Bisognava stare in guardia.
Primo: prendere subito le opportune misure di sicurezza.
Secondo: verificare come stessero esattamente le cose.
Così sui due piedi ma senza panico, i miei zii ci svegliarono.
Avevano già deciso dove condurci: un rifugio (fino ad allora segreto) scavato sotto terra
nei campi di Toni.
Era un rifugio molto grande. Dentro non c’ eravamo solo noi. C’ erano alcune famiglie di parenti e di vicini e ancora c’era spazio.
Per fortuna le voci sui fascisti in cerca di vendetta erano infondate. I fascisti erano spariti e quelli che avevano cose sporche sulla coscienza, erano andati a nascondersi chissà dove.
Il giorno stava per finire. Siamo allora ritornati a casa e prima ci siamo rifocillati con scodelle di caffè di frumento tostato, poi con la zuppa di pollo, non toccata dai tedeschi in fuga, debitamente allungata per farla bastare per tutti.
L’indomani, il 26 aprile 1945, mi sveglio presto. C’è in giro un gran fermento. Persone che vanno, perone che arrivano. Le informazioni si accavallano. Sento parlare di americani ormai vicinissimi e che una colonna sarebbe passata proprio dallo stradone, su quei tre ponti che gli obici non avevano colpito.
Tutto vero. Corro anch’io sullo stradone che era già pieno di gente .
Io, ragazzino di dieci anni, sento un clima assolutamente nuovo. La gente grida “viva la pace, viva l’America, viva la libertà”. Qualcuno ha gridato “viva il comunismo”. Erano per me parole nuove delle quali non conoscevo il significato. Improvvisamente percepisco un cambiamento negli sguardi, negli atteggiamenti: la paura è scomparsa, le persone sono felici, si sentono libere.
Torno a casa con la sensazione che finalmente tutta quella assurda e paurosa situazione nella quale ero vissuto fino ad allora era finita. I pericoli erano finiti. Potevo riprendere i miei giochi preferiti: correre a piedi nudi sull’erba, andare a pesca nei canali e nei fossi.
Ecco pensando a quelle vicende , mi rendo conto come le persone fossero stanche, stufe di guerra, di fascismo e anche quelli he avevano creduto alla propaganda del regime fascista sentivano una voglia di voltare pagina, un bisogno profondo di pace e di libertà.
Ecco perché per gli italiani la liberazione dal fascismo è stata come l’uscita da un incubo troppo lungo, troppo orribile.
Ecco perché il 25 aprile è il giorno della pace e della libertà. E dovrebbe esserlo per tutti.
Renzo Baricelli