Ci sono ancora i ballottaggi, ma l’esito elettorale parla già abbastanza chiaro. Nonostante alcuni risultati non proprio esaltanti, c’è una vittoria politica del M5S che va riconosciuta, così come la destra dimostra in alcune realtà preoccupanti segnali di vitalità ritrovata.
C’è soprattutto un forte ridimensionamento di Renzi e del PD e per noi è una notizia che semplicemente conferma le buone ragioni della nostra opposizione al governo. La logica del “tanto peggio tanto meglio” non ci appartiene, ma non possiamo credibilmente sostenere che le politiche di Renzi (il Jobs Act, la buona scuola, lo sblocca italia, la riforma costituzionale e quella elettorale) siano parte di un disegno che ha al centro l’indebolimento della qualità della democrazia nel nostro paese, e poi non essere conseguenti sul piano elettorale e dell’analisi del voto. Renzi perde? Va bene così, non potrebbe essere diversamente. Il Re è nudo.
Se il nostro obiettivo è quello di vincere il referendum del prossimo ottobre sulla riforma costituzionale, e se riteniamo quella riforma un danno per la democrazia, non si può che accogliere con favore la battuta d’arresto che Renzi riceve dal voto amministrativo, che per altro contribuisce a seminare nuove e più profonde contraddizioni nel campo democratico e nel fronte di chi sostiene il Sì al referendum.
Poi ci siamo noi. Il voto alle proposte della Sinistra (variamente definite, come sappiamo) è l’esatta fotografia di ciò che siamo e di ciò che dannatamente non abbiamo ancora fatto. La misura del nostro insediamento, della nostra consistenza nei territori, il metro della qualità dell’offerta politica che proponiamo, che oggi appare confusa e contraddittoria anche per il dibattito a ruota libera che l’accompagna.
Abbiamo conseguito risultati insoddisfacenti e largamente al di sotto delle aspettative, come a Roma e Torino, ma anche risultati positivi come a Bologna, Ravenna, Brindisi, Napoli, Cosenza, e talvolta strepitosi come a Sesto Fiorentino. E poi c’è una eccezione, Cagliari. Dove il risultato di Zedda è figlio di una condizione straordinaria: fuori dall’ordinario ormai è infatti la coalizione che lo ha sostenuto, e ottimi sono stati l’esperienza di governo e la figura del candidato sindaco, Massimo per l’appunto, che ha un profilo efficace, riconoscibile, pertinente al quadro della città e della sua storia recente.
E tuttavia, trovo la drammatizzazione della discussione in queste ore dannosa, oltre che sbagliata, figlia di una approccio politico culturale che riduce e impoverisce la politica alla dimensione istituzionale, ignorando o sottovalutando che oggi quella dimensione è in gran parte l’espressione della distanza tra politica e società, e giudica ogni volta i risultati delle amministrative come l’alfa e l’omega del lavoro che abbiamo da fare. Cosa si giudica se non si è lavorato abbastanza?
Rispetto ai ballottaggi, dice bene Federico Martelloni che i nostri voti non si sommeranno mai a quelli della destra e che tocca ai candidati in corsa cercare di convincere gli elettori della Sinistra. A noi, dove non siamo ai ballottaggi, tocca invece continuare a rilanciare i nostri temi e le nostre proposte per continuare il lavoro nelle città.
Mi paiono, invece, velleitarie le chiamate alle armi contro il populismo. Il populismo è divenuto la cifra dell’offerta politica di questo tempo proprio perché a questo nostro tempo è stata tolta prospettiva e profondità: si è detto infatti, e per decenni, che non c’è altra strada che l’accettazione di fronte all’impoverimento diffuso prodotto dal capitalismo finanziario globale. Potevamo immaginare che nascesse qualcosa di diverso da una politica fondata sulla continua ostensione di un capro espiatorio, che fossero gruppi dirigenti da rottamare, caste politiche di cui cancellare i privilegi, poveri e migranti da criminalizzare? Sono nati così il populismo dall’alto e tecnocratico di Renzi, quello anticasta di Grillo, e quello xenofobo e fascista di Salvini.
E Noi? Noi non possiamo essere né superficiali né snob, non possiamo certo diventare i difensori della Cittadella assediata, visto che l’assedio è frutto delle politiche che quella Cittadella ha prodotto. Da tutto ciò non possiamo prescindere: è dentro questo scontro tra alto e basso della società che dobbiamo costruire un progetto di cambiamento.
La lettura nostalgica o la riproposizione del centro-sinistra non ha quindi alcun fondamento. Non c’è più, è stato sepolto dalle scelte concrete e dalle politiche perseguite in questi anni che non hanno tenuto in nessun conto le sofferenze sociali che si producevano, e non hanno dato risposte democratiche al rancore popolare contro l’indifferenza, i privilegi e il senso di impunità delle classi dirigenti. Una disputa tutta politicista sul “posizionamento” non produce quindi nulla di utile o di efficace.
Ma non basta, se la definizione del nostro posizionamento contro il partito trasversale del “non c’è alternativa possibile” è certamente condizione necessaria, per le ragioni accennate in premessa, non è sufficiente.
Il punto su cui interrogarsi, piuttosto, è come riuscire a incontrare il voto in fuga dal PD, e quello che si perde nell’astensione. Manca da parte nostra una proposta definita, credibile, riconoscibile, e mancano quei tratti di innovazione di cui ci si riempie la bocca un po’ ovunque, ma che rimane una buona enunciazione di principio senza esiti.
In questi giorni, in queste ore, si sono moltiplicati gli interventi pubblici a mezzo stampa o a mezzo social e le prese di posizione a carattere personale, gli uni contro gli altri armati. Di retorica, certo, ma sempre armati. E’ arrivato il momento di finirla. Innanzitutto perché è urgente ricostruire un lessico e un comportamento improntati alla generosità e al rispetto reciproco. Non si costruisce un gruppo dirigente e nemmeno una forza politica senza un vincolo di solidarietà.
Non si costruisce una storia collettiva, né una prospettiva se lo schema che si afferma nelle discussioni, quando le cose non vanno bene, è quello per cui “è sempre colpa degli altri”. Non si costruisce nulla senza la sana consapevolezza dell’importanza che ogni parola ha e del riverbero negativo che può avere sulla comunità che ci segue, che ogni giorno è sul territorio impegnata a cercare di ricostruire credibilità e coerenza della proposta politica. Loro raccolgono firme, volantinano, cercano consenso, mentre da Roma lo spettacolo che arriva è quello desolante di una guerra tra generali senza esercito. Non può più esserci chi si diletta a cantare la messa perché tanto la croce la portano gli altri. Perché quegli altri a un certo punto vanno via.
Basta così.
Basta così, perché al centro di un progetto politico, di una proposta forte deve esserci, invece, una biografia collettiva. La Sinistra in questi anni si è raccontata ed è stata percepita come la sinistra del centro-sinistra. Ha avuto a cuore i dibattiti su come superare le soglie di sbarramento piuttosto che su come cambiare il mondo. Si è raccontata come “sentinella”, e quindi come spettatore, piuttosto che come protagonista. Essere riconosciuta come altro, cambiare una prospettiva, incidere sul senso comune radicato da anni per recuperare un racconto diverso e alternativo, è lavoro lungo e faticoso. Al tempo del “cambia verso”, quello in cui cambiano le facce ma mai la sostanza, abbiamo il dovere di sovvertire il discorso pubblico. Nella storia che vogliamo raccontare, c’è la storia del paese che vogliamo costruire, quella di chi invece di appellarsi all’uomo o alla donna soli al comando, ha come bussola l’interesse collettivo, i più deboli, la democrazia che distribuisce potere e non un gioco elettorale che lo concentra nelle mani dei soliti noti.
E allora è il momento di metterci in gioco, per davvero. Puntiamo all’innovazione e alla qualità della proposta politica.
Innovazione non come chissà quale sofisticata pratica di marketing, ma come fatica quotidiana: ne hanno tutti abbastanza della sinistra un po’ parolaia che non trae conclusioni pratiche dalle proprie analisi. Quella che guarda alla realtà ma non se ne lascia attraversare, guarda alle periferie con il distacco dell’antropologo, e non le frequenta.
L’innovazione riguarda certamente anche il linguaggio e la comunicazione (che devono essere al centro dei nostri sforzi e della nostra elaborazione), ma chiama in causa soprattutto le pratiche. E innovare le pratiche significa oggi come non mai recuperare il meglio di una storia antica: quella del radicamento, dello stare nei luoghi del conflitto e delle difficoltà per restituire utilità ai corpi collettivi che praticano e inventano nuovo mutualismo, che diventano approdi per le vite alla deriva. Questa è la domanda. Questo è l’insegnamento che si deve trarre da alcune forme di autorganizzazione dal basso che si sono affermate a queste elezioni amministrative, con le quali in molte realtà abbiamo costruito un rapporto fruttuoso e intelligente.
A partire dai temi, dall’analisi, dalla visione, che hanno bisogno di un cuore, di un discorso sul mondo. C’è qualcosa intorno a cui tutto deve cominciare, e questo qualcosa va individuato tra le cose della vita, tra i suoi sentimenti.
Per parte mia credo che tutto debba cominciare dal sentimento di ingiustizia che attraversa nel profondo la società in cui viviamo. Quel sentimento punta l’indice esattamente dove va puntato: sulla insopportabile disuguaglianza che l’economia globale in cui siamo immersi produce ogni giorno. E’ questione di ricchezza e povertà, ma è anche questione di opportunità e libertà negate, di innovazioni tecnologiche osteggiate, di territori saccheggiati dalle mafie e dalla corruzione, di intere generazioni senza presente, di sapere e conoscenze perdute, e infine di democrazia ferita e incompleta. Non serve citare Aristotele per vedere che l’aspirazione a cancellare le diseguaglianze è il cuore e l’origine di ogni rivolta che abbia cambiato il corso della storia. Se perde questa aspirazione, la politica muore e la Sinistra non esiste.
La disuguaglianza al centro di tutto, quindi, come il lavoro e il reddito.
Ma i diritti civili non possono essere relegati a fatto etico, magari rifugiandosi nella libertà di coscienza, e la questione dei migranti non può essere trattata solo da un punto di vista umanitario. La vicenda dei migranti porta con sé tutto il peso della lettura delle disuguaglianze in atto nel pianeta, degli squilibri prodotti e benedetti dal neoliberismo globalizzato che necessita delle risorse e delle vite dei territori per alimentarsi, come fanno i parassiti. I corpi dei migranti raccontano la storia economica dei giorni nostri: o sei merce e hai un prezzo (per lo scafista, per il caporale, per gli interessi famelici di una certa accoglienza), oppure sei morto.
Serve un confronto vero sui temi sui quali esistono punti di vista diversi ma su cui non credo si possa pensare di procedere semplicemente con una conta di voti. Una delle sfide che abbiamo davanti è da un lato quella di trovare il modo di collaborare fra culture diverse e dall’altro quella di coinvolgere nella discussione il mondo cui vogliamo parlare, che magari ha qualcosa da insegnarci.
Si può pensare di ridurre una discussione fondamentale ed estremamente complessa come quella sulla crisi dell’Europa ad uno scontro tra una visione neo-sovranista e un richiamo alla necessità di avere più Europa che oggi appare quasi solo come uno sforzo volontaristico e incapace di vedere i limiti strutturali di questo modello? Per altro, mentre il capitalismo finanziario ha approfittato della crisi per ristrutturarsi, per riorganizzarsi in senso sovranazionale, avrebbe più senso dibattere su come contrapporre l’organizzazione delle forze popolari della Sinistra. Io non immagino una Sinistra che rinuncia allo spazio europeo come orizzonte minimo della propria iniziativa, perché è lì che vive il tema del deficit democratico alla base dei trattati europei, tema che non possiamo lasciare alla destra estrema.
Si può immaginare di riproporre una dicotomia secca tra il lavoro e il reddito o peggio tra questione sociale e diritti individuali? Che significa oggi discutere di lavoro e di politica industriale senza parlare di modello di sviluppo, di cambiamenti climatici e di riconversione ecologica? Oggi che in molti paesi il tema è diventato anche quello della liberazione dal lavoro, per meglio conciliare i tempi della vita con quelli della produzione, dobbiamo tornare a confrontarci sulla riduzione dell’orario di lavoro e sulla redistribuzione del lavoro.
Dobbiamo proporre un discorso, insomma, e arrivare a un programma di governo, sapendo che non c’è alcuna cultura di governo, alcun programma di coalizione, alcun manifesto di partito che possa sopravvivere senza che sia animato da una discussione su questi temi, da un profilo netto e da una visione chiara. A nulla servono le cosiddette buone pratiche di governo se non vivono dentro una visione. Sono importanti le strisce pedonali, come coprire le buche nelle città, ma tutto ha un senso politico se non lo si fa, per esempio, solo nel salotto buono delle città, ma innanzitutto nelle periferie dove la vita è meno semplice.
Per tutte queste ragioni, è necessario accelerare.
Accelerare lo scioglimento di SEL innanzitutto, perché sia chiaro che abbiamo fatto un investimento politico, perché sia chiaro che lo spazio di confronto e il terreno di decisione comune sta nel luogo che ci siamo dati tutti insieme. Perché sia chiaro anche che non abbiamo scherzato, né abbiamo giocato con la passione e con la vita di tante e tanti cui in questi mesi abbiamo chiesto di riprovarci, di esserci, di tornare protagonisti.
Accelerare la costruzione di Sinistra Italiana.
E’ il momento di definire la nostra proposta politica e di liberare la partecipazione nei territori costruendo Sinistra Italiana, perché quello è lo spazio nel quale questa discussione e le nuove pratiche vanno costruiti.
fonte: COMMO
https://www.commo.org/post/69245/si-e-il-momento/