1970 – 2015 : 45esimo anniversario dello statuto dei diritti dei lavoratori.

Di Renzo Baricelli

Il 20 maggio del 1970, lo statuto dei lavoratori è pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana ed entra in vigore come legge dello Stato Italiano.

Da quel momento in Italia, tutti i lavoratori sanno di avere dei diritti sindacali e politici anche all’interno dei luoghi di lavoro. Tutto il padronato pubblico e privato è tenuto a non violarli.

La consapevolezza di avere diritti tutelati per legge da poter far valere nei confronti della controparte padronale comporta un salto culturale enorme in tutta la società italiana.

Donne e uomini sono e si sentono cittadini titolari di diritti anche all’interno dei luoghi di lavoro.

Finalmente una di legge che permette di dare attuazione pratica a principi basilari della Costituzione Italiana nel rapporto tra lavoratori e padroni delle imprese.

Donne e uomini che lavorano come dipendenti di una impresa non si sentono più soli.

Ovviamente, oltre al diritto occorre avere la forza per farlo valere e la lotta sarà lunga e non facile.

Il padronato, non tutto ma certamente una parte molto grossa, per interessi e mentalità, non si adegua e cerca costantemente di togliere forza e significato allo Statuto. Soprattutto su un punto, quello di dover reintegrare i licenziati senza giusta causa.

In sostanza poter ritornare a dire “Se non ti va, lì c’è la porta.” Insomma per il padronato togliere l’obbligo di reintegrare i licenziati senza giustificato motivo, significa disporre “a priori” di un deterrente, di un ricatto enorme che incute timore solo per il fatto che il padronato, non ha vincoli da rispettare, è una sua facoltà licenziarti comunque.

Infatti c’è una bella differenza sapere che comunque puoi essere licenziato, anziché sapere che se hai ragione NON puoi essere licenziato. E’ un fatto che cambia non solo il rapporto di forza sul singolo aspetto del licenziamento ma lo cambia su tutto il modo di intendere, su tutta una mentalità.

Lui, il padrone HA il potere. Tu lavoratrice, lavoratore, NO. E’ un bel salto all’indietro.

Ma i lavoratori e le lavoratrici non possono dimenticarsi della loro storia: hanno saputo lottare anche prima dello Statuto; hanno saputo lottare anche quando e dove non c’erano le grandi fabbriche; hanno saputo lottare anche quando erano costretti all’analfabetismo e sparpagliati nelle cascine con l’incubo, ogni anno, del San Martino che toglieva il lavoro e la casa.

Hanno saputo lottare gli edili che lavoravano suddivisi in piccoli gruppi in piccoli cantieri.

Hanno saputo lottare le sartine.

Hanno saputo lottare gli impiegati, anche quelli isolati nei grattacieli, sedi delle grandi aziende.

In tempi passati lavoratrici e lavoratori italiani hanno saputo lottare e scioperare quando questo significava il rischio della deportazione, della vita, sotto l’occupazione delle truppe di Hitler e dei fascisti nostrani.

E a fare scattare la molla, a suscitare il coraggio è sempre stato il sentirsi calpestati nella propria dignità, il sentirsi ingiustamente trattati, la necessità morale di reagire alla ingiustizia, alla prepotenza, alla arroganza, il bisogno insopprimibile di libertà, di uguaglianza.

E la costatazione di essere uniti nella comune condizione di lavoratori al di la delle differenze di paga o di qualifica. Avere consapevolezza di far parte della classe lavoratrice.

La consapevolezza che per contare, per essere rispettati, per far valere le proprie ragioni, occorreva organizzarsi sindacalmente e politicamente. Ovviamente era vietato dalle leggi di allora e si finiva in galera per anni, quando non fucilati sulle piazze delle città o nei paesi di campagna.

Eppure i lavoratori e le lavoratrici hanno concepito e costruito le leghe sindacali, i sindacati territoriali e nazionali, la confederazione generale del lavoro. Hanno concepito e costruito le loro organizzazioni e partiti politici perché hanno compreso che non potevano esserne privi se volevano essere parte della società e dello Stato anche là dove si governa, dove si decidono le sorti di tutti.

Oggi, molti lavoratori cosi detti autonomi, sono definiti imprenditori di se stessi e spinti a isolarsi dalle vicende della politica; così artigiani e commercianti in proprio, coltivatori diretti.

E’ bene non dimenticare che ceti sociologicamente diversi, hanno complessivamente migliorato la qualità della loro vita personale e delle loro famiglie quando i lavoratori organizzati nei sindacati e nei partiti hanno dato un decisivo contributo a migliorare le condizioni economiche, culturali, civili di tutta la società italiana. E persino le classi economicamente più forti hanno potuto godere gli effetti positivi di questa spinta per la modernizzazione dell’Italia.

Comprimere, mandare indietro la classe lavoratrice comporta inevitabilmente un arretramento della qualità della vita di tutti i cittadini, proprio in quanto membri viventi di una società che regredisce.

Ecco che, pur da posizioni diverse, vi è comune interesse a promuovere i diritti e il ruolo della classe dei salariati, in quanto tale, e il suo uguale, autonomo diritto/potere di determinare le scelte politiche e di governo della Repubblica.

E’ ovvio che non potrà essere una gentile concessione di qualcun altro.

I lavoratori hanno saputo ( e non c’è motivo per dubitare che sapranno farlo anche in futuro) rinnovare e spingere avanti, quando le loro organizzazioni esprimevano momenti di smarrimento politico e ideale o si burocratizzavano venendo meno alla loro funzione.

In conclusione, ogni lavoratore e lavoratrice, proprio quando le cose non vanno bene, ha la necessità di riflettere e di, insieme agli altri, ricercare una idea di futuro e provare a costruirlo con gli strumenti della lotta politica impegnandosi personalmente. Anche quando tutto sembra spingere in una direzione opposta.