#Sinatra100, il secolo di The Voice. Più di tutti e prima di tutti
di GIUSEPPE VIDETTI
Prima e più degli Hendrix e i Morrison, le Joplin e le Winehouse, i Cobain e i Buckley ci fu lui, Frank Sinatra, l’essenza del pop. Che il 12 dicembre avrebbe compiuto 100 anni.
Ha fatto tutto prima di tutti, Ha avuto tutto prima di tutti. Frank Sinatra, nato il 12 dicembre di cent’anni fa, gloria dell’Italoamerica, è l’essenza del pop. È stato Mick Jagger e Justin Bieber, Bowie e Bono. Un’icona: ha santificato tutto quel che ha toccato. Come e più delle star morte a ventisette anni – gli Hendrix e i Morrison, le Joplin e le Winehouse, i Cobain e i Buckley – di cui più frequentemente si celebra il sacrificio. Quella fine lui l’ha schivata, la sua sproporzionata celebrità esplose negli anni della bottiglia non in quelli della siringa – mica è un caso che una celebre marca di whiskey gli dedichi un’edizione esclusiva per il centenario. Se troppo spesso si manca di ricordarlo come homo superior della musica è solo perché è morto a un’età veneranda, ottantadue anni (il 14 maggio 1998), quando da un pezzo faceva fatica a recuperare lo smalto e il parrucchino aveva mortificato la fisionomia del tombeur de femmes che qualche regista aveva sognato di far interpretare sullo schermo proprio da David Bowie (in gioventù The Voice era magro e aguzzo come il Duca Bianco). Sinatra era già bolso all’epoca del formidabile rilancio, nel 1968, quando chi deprecava i movimenti studenteschi pasteggiava a champagne e My way. Ancora più grigio, ma non meno prepotente, nel 1979, quando con un colpo da maestro – e da vecchio furfante dello showbiz – scippò New York, New York a Liza Minnelli.
I corsi e i ricorsi del pop: la morte uccide gli artisti, il futuro li riporta in vita come gli pare, li vomita e li rivolta ripescando a casaccio – e nei sessant’anni di attività di Sinatra ce n’è per tutte le occasioni. Hanno poco da sghignazzare le adolescenti che lanciano peluche e bigliettini allusivi sul palco del bellino di turno; Frank era l’idolo delle bobby soxers coi calzettini bianchi e la Seconda guerra non era ancora finita – anche le loro nonne erano scatenate. Quando Nancy Barbato, la prima delle quattro mogli, rimase incinta del secondogenito Frank Jr, New York era ostaggio dei “Sinatra riots”; ogni giorno cinquemila ragazzine urlanti paralizzavano Times Square in attesa delle matinée del divo al Paramount Theater. “È dai tempi di Rodolfo Valentino che il pubblico femminile non dichiara apertamente il proprio amore a un artista”, scrisse il Time in quell’ottobre del 1944 quando, complice la vacanza del Columbus Day, ce n’erano addirittura trentamila a invocare il nome di Frankie, in lacrime, tante vedove minorenni più agguerrite di quelle che nel ’26 avevano inondato di lacrime la bara di Rodolfo Valentino. Per forza Sinatra si beffava dei Beatles negli anni della British Invasion – e li detestava non poco – l’America sembrava aver dimenticato gli anni in cui i suoi occhi blu e la voce confidenziale da crooner che sfiorava il microfono come le labbra dell’amata scatenavano un isterismo di massa senza precedenti (considerando che all’epoca le ragazze non godevano della stessa libertà delle coetanee cresciute in pieno flower power). Prendeva in giro anche Elvis, che per esercitare il suo sex appeal lavorava di bacino; Sinatra non usava altro che una sobria eleganza e la magia della voce.
Fece il suo debutto al Palladium di Londra il 10 luglio 1950 (e ci restò fino al 23), apparizioni fulminanti di cinquanta minuti. Annunciato da Woolf Phillips, il divo americano entrò in scena cantando When you’re smiling, seguita da Ol’man river e altre dodici canzoni. “Sinatra canta praticamente immobile”, scrisse Pat Brand sul Times del 25 luglio. “Nei brani lenti, che sono la maggioranza del programma, le sue braccia si protendono con aria supplice verso il microfono; nei pezzi swing scandisce il tempo facendo schioccare le dita. Sul palco la sua figura è magnetica come quella dei primi divi del cinema. Sa come scatenare la platea, e quando la tensione sale e scatta la standing ovation, richiama tutti alla calma con la voce profonda e lo sguardo languido. Ci sono oggi cantanti in grado di competere con lui? Ho dei forti dubbi”. Non era un Sinatra felice quello che salutò il pubblico del Palladium cantando Bye, bye baby. Né artisticamente né sentimentalmente. The Voice aveva disperatamente bisogno di rassicurare i suoi fan, voleva disperatamente sfondare a Hollywood e aveva il cuore a pezzi. L’anno terribile, il 1953, era alle porte. Ava Garden, la diva che aveva mandato a rotoli il suo matrimonio con Nancy Barbato, lo liquidò da un giorno all’altro. La leggendaria voce dell’artista si spezzò dal dolore, si parlò ripetutamente di tentativi di suicidio. Per la prima volta si sentiva un perdente (questa è la ragione per cui le canzoni tristi presero il posto dello swing, un repertorio che solo più tardi i cultori di Sinatra hanno imparato ad amare, quello di I’m a fool to want you, devo essere pazzo per volerti, scritta proprio per la Gardner), il divorzio dalla moglie Nancy lo colpevolizzava oltre ogni limite, la carriera era in ribasso, il bicchiere era diventato un amico indispensabile. Ma l’intensità era al massimo: molte di quelle incisioni condite di malamore e fragilità sono ancora oggi i capolavori di Frank, ben più potenti delle sue molte apparizioni cinematografiche: In the wee small hours (1955), Close to you (1956), Where are you? (1957), Sings for only the lonely (1958), No one cares (1959).
Sinatra pagò il prezzo che tutti i teen idol devono versare quando arrivano alla curva pericolosissima che li trasforma in sempreverdi o li fa precipitare nel dimenticatoio. In patria già da tempo si parlava e sparlava dei suoi amici mafiosi (i boss erano sempre in prima fila al Copacabana e gli diedero carta bianca a Las Vegas, che praticamente nacque e crebbe col Rat Pack) che gli avevano agevolato il ritorno in grande stile al cinematografo (Da qui all’eternità, premio Oscar nel 1953 come miglior attore non protagonista). Oggi si preferisce ricordare la sua amicizia col clan dei Kennedy più che il suo exploit alla Bono del 1945, quando presentò alla Benjamin Franklin High School di Harlem, il quartiere più turbolento di Manhattan, The house I live in, un corto sull’integrazione razziale. L’omonima canzone che vi interpretava, un inno superbo, fu ripreso con fierezza da Paul Robeson, Mahalia Jackson e un’infinità di jazzisti nell’epoca in cui infuriavano le lotte per i diritti civili.
Chissà da che parte stavano “gli amici” l’8 dicembre del 1963 – altro anno terribile per The Voice (il suo amico fraterno John Fitzgerald Kennedy era stato assassinato a Dallas pochi giorni prima) – quando il figlio Frank Jr. fu rapito nella stanza 417 dell’Harrah di Lake Tahoe. Per la liberazione l’artista pagò un riscatto di 240mila dollari (l’equivalente di 1,3 milioni di oggi); mai nessuno della famiglia ha voluto parlare dell’episodio, ma le illazioni della stampa furono pesantissime. Sebbene i responsabili fossero stati arrestati e condannati, qualcuno azzardò che Sinatra avesse architettato tutto per lanciare la carriera di Frank Jr., o che il ragazzo fosse stato rapito dai suoi compari – un avvertimento mafioso in piena regola. Frank Jr, che abbiamo incontrato a Londra pochi anni fa e continua a lavorare nelle retrovie con la sua orchestra, commentò amaramente: “Così crollò il mio castello di carte, l’illusione di andare avanti nella carriera senza essere associato a lui”. Delle foto di famiglia accanto all’albero di Natale con la prima moglie ormai abbandonata e i tre figli (oltre a Frank Jr., Tina e Nancy, che negli anni Sessanta ebbe una brillante carriera come cantante pop), si limitò a dirci: “Alla fine era marketing anche quello. Incideva quattro album, girava due film e teneva un’infinita serie di concerti all’anno. Avrebbe avuto bisogno di trenta ore al giorno per pensare anche alla famiglia”.
All or nothing at all, il documentario della Hbo che è stato presentato alla Festa del cinema di Roma, è un bel viaggio attraverso il mondo dorato, le molte glorie e l’infinità di bugie di The Voice (non basterebbe un intero docufilm per raccontarne le mille scappatelle e le leggendarie prodezze amatorie). Neanche chi ha la memoria corta ha dimenticato che per decenni Frank è stato Bieber, Jagger, Bowie e Bono in un solo uomo. Nel 1966 Gay Talese pubblicò per Esquire il resoconto di un’intervista a The Voice che non si fece, il titolo era “Frank Sinatra ha l’influenza”. Fu salutato come un egregio esempio di new journalism, al punto che per il centenario è stato ampliato e ripubblicato da Taschen in un volume di superlusso (200 euro) corredato dagli scatti memorabili di Phil Stern, l’unico fotografo che l’abbia seguito per quarant’anni. E’ vero, quel 1915 fu un anno di guerra, ma anche generosissimo se nel giro di pochi mesi diede i natali a Billie Holiday, Edith Piaf e Frank Sinatra.
fonte: La Repubblica
http://www.repubblica.it/spettacoli/musica/2015/12/11/news/frank-129157594/?ref=HRERO-1