Il 7 luglio 1967 è un venerdì. Jimi Hendrix è in viaggio verso Jacksonville, in Florida, con i suoi Experience, dove il giorno dopo l’attende, al Coliseum, il primo concerto di una lunga tournée con i Monkees, i freschi e puliti idoli dei teen-ager locali. È il suo primo tour nella nazione dove è nato, quell’America che non lo ama troppo, che detesta la sua musica nervosa e la mescola di razze che porta nel sangue, metà nero e metà pellerossa. Non è un caso che siano stati gli europei a scoprirlo e a dargli la possibilità di farsi conoscere in tutto il mondo. Il suo manager è un inglese, il ruvido Chas Chandler, già bassista degli Animals, che ha creduto in lui e lo ha aiutato anche economicamente nei momenti duri. In Europa ha colto i suoi primi successi e ora, con l’aureola della gloria, torna nel suo paese per una lunga serie di concerti. Non lo convince l’idea di essere accoppiato ai Monkees, un gruppo dolciastro nato a tavolino come risposta americana ai Beatles, ma i contratti sono contratti e lui è uno di parola. Nel tardo pomeriggio di quel 7 luglio 1967, al suo arrivo a Jacksonville trova, però, la città tappezzata da manifesti che lo contestano. Sono firmati da un gruppo di destra chiamato “Associazione delle figlie della rivoluzione americana” e chiedono ai “veri americani” di mobilitarsi contro le sue esibizioni, considerate “oltraggiose” e “pornografiche”. Non sono minacce vuote. I luoghi dove si deve esibire vengono presidiati da gruppi di manifestanti che danno alle fiamme i suoi manifesti. La contestazione spaventa gli organizzatori della tournée che, dopo aver tentato qualche formale resistenza in nome della “libertà d’espressione”, danno il benservito al buon Jimi e lo rimandano a casa.